di Roberto Marraccini – Anche quest’anno, come è ormai mia abitudine ogni 10 agosto, ricordo Gianfranco Miglio. 24 anni fa, verso le 14 del pomeriggio, a Como terminava il suo viaggio terreno.
Ricordo ancora quel giorno di agosto quando i telegiornali annunciarono la notizia. Ricordo anche, il giorno successivo, i titoli degli articoli della stampa – quasi tutti nelle pagine interne, mai in prima – che si concentrarono sul suo percorso politico a fianco della Lega Nord di Bossi, tanto da venire indentificato come l’”ideologo del movimento leghista”. Tra il materiale del mio archivio, ho ritrovato parecchi ritagli di stampa di quei giorni, tra cui un pezzo dal titolo emblematico: “Addio al papà della Lega”.
Ma il profesùr (come affettuosamente i simpatizzanti della Lega Nord lo appellavano) fu soprattutto altro. Quel giorno il Paese non perse l’ideologo della Lega, ma uno dei suoi più lucidi ed attenti osservatori, oltre che uno dei più grandi – se non il più grande – scienziati della politica (come lui amava definirsi) del Novecento. Ma soprattutto, quel giorno, il Paese perse un vero maestro di federalismo; perse l’artefice ed il teorico della costruzione della riforma in senso federale della Repubblica.
Più volte, in questi anni, ho cercato di immaginare che cosa avrebbe pensato e quali sarebbero state le sue idee sull’evoluzione simil-federalista che il Paese intraprese proprio in quegli anni. Un cammino di riforma che vide prima l’approvazione della Riforma del Titolo V (approvata sul finire della XIII Legislatura pochi mesi prima della sua dipartita e confermata con referendum costituzionale il 7 ottobre 2001), poi, successivamente, con l’avvio del cammino riformatore incentrato sulla cosiddetta devolution, che prevedeva il trasferimento di alcune competenze legislative esclusive alla Regioni (una riforma costituzionale, comunque, che venne poi bocciata dal referendum confermativo del 25 e 26 giugno del 2006). Me lo sono chiesto tante volte e la risposta che mi sono dato e che continuo a darmi è che avrebbe semplicemente detto che si stava parlando né più e né meno di semplice regionalismo e devoluzione di alcune competenze legislative alle Regioni: nulla a che vedere con il vero federalismo, come lui lo intendeva.
Il federalismo vero di Miglio
Per capire meglio questo importante passaggio, allora, soffermiamoci sulla sua idea di federalismo, sulla sua teorizzazione federalista.
Un federalismo che, per Miglio, dovrebbe configurarsi in maniera opposta rispetto al federalismo classico, che era utilizzato per unire delle entità preesistenti (e pluribus unum: da più soggetti ad un unico soggetto, proprio come sono nati la Svizzera e gli Stati Uniti d’America). Il nuovo federalismo di Miglio – neofederalismo – ha, invece, la funzione storica di “tutelare e gestire le diversità”, favorendo quindi “il passaggio dall’unità alla pluralità: ex uno plures ”: da un’unica entità sovrana, lo Stato nazionale, si giunge – dopo un processo di federalizzazione – ad un sistema costituito da più sovranità distinte tra loro ed unite da un patto federativo (il principio cardine del federalismo).
Il suo modello federale, che vedeva concretamente realizzato solo in Svizzera, non ammetteva mezze misure, come per esempio le materie legislative concorrenti (previste dal nuovo Titolo V della Costituzione italiana).
Il suo punto di partenza era rappresentato dal concetto di Stato, inteso in senso moderno, con le sue strutture pachidermiche come la Pubblica Amministrazione piena di parassiti, la burocrazia, il potere coercitivo incarnato dall’uso della forza ecc. Uno Stato che, sempre seguendo le sue teorie supportate comunque da studi rigorosi e puntuali analisi scientifiche, era in fase di declino e che avrebbe potuto rigenerarsi solo con il vero federalismo.
Una vera Costituzione federale
Miglio fu un vero federalista, un federalista convinto; un federalista viscerale, se così possiamo dire. Il suo pensiero, approfondito e sviluppatosi poi lungo tutto l’arco della sua vita di studioso, era fortemente ancorato a quello che, oggi, viene definito neofederalismo. Nella sostanza – seguendo questa impostazione teorica – egli considerava il federalismo non più come uno strumento atto ad unire, ma quale strategia utile per tutelare e gestire le diversità esistenti. In altre parole, il federalismo è stato percepito sia come forza costruttiva dell’unità della nazione (come nell’esperienza degli Stati Uniti d’America e riassunta nell’affermazione e pluribus unum: da più soggetti distinti ad un unico soggetto), sia come insieme di forze centrifughe che possono portare alla disintegrazione dell’unità (come nell’esperienza della rivoluzione francese). Storicamente, infatti, uno Stato federale può nascere sia per aggregazione di realtà politiche autonome, come nel caso della Svizzera, o per progressivo allentamento del vincolo dello Stato nazionale centralistico per salvaguardare e tutelare le diversità e le differenze presenti sul proprio territorio (come nel caso attuale del Belgio, della Spagna).
Ma, seguendo questi assunti, in base a che cosa possiamo affermare che – effettivamente – ci troviamo di fronte ad una Costituzione federale oppure no? Il Prof. Miglio a questa domanda faceva sempre precedere un assunto, chiaro e perentorio, che ripeteva spesso nelle sue analisi sui sistemi politico-istituzionali: «Le vere Costituzioni federali o sono tali o non lo sono». Questo perché esistono, nel mondo, svariati esempi di Stati federali sulla carta – in base a quanto scritto nella loro Costituzione – ma che nella realtà hanno comportamenti tipici di Stati centralisti (i cosiddetti federalismi falsi). Vi sono, poi, sempre secondo quanto sosteneva il Prof. Miglio, esempi di Stati federali veri – come la Svizzera – che sono sempre con maggiore frequenza interessati da processi di riaccentramento di determinate funzioni normative in favore del centro (quello svizzero è un federalismo vero che ha solo bisogno di rinnovarsi).
Proprio nel pensiero e nelle riflessioni del Professore comasco sono spiegate con estrema chiarezza quali debbano essere le caratteristiche di un vero federalismo, da realizzare in maniera effettiva in una vera Costituzione federale. Quindi, con ordine:
1) innanzitutto due centri di poteri equivalenti dotati ognuno di una propria sovranità (Cantoni e Federazione); 2) le entità federate (lui parlava di Cantoni) devono avere dimensioni tali da permettere loro di svolgere l’attività a loro preposta riuscendo inoltre a resistere al potere dell’autorità centrale; 3) tutte le regole che disciplinano il funzionamento del sistema generale sono ispirate al principio del contratto (negoziato) e della maggioranza qualificata; 4) nella Costituzione si devono prevedere strumenti che consentano sempre una rapida e certa decisione degli affari di Governo; 5) una struttura fiscale – fortemente autonoma per i vari soggetti istituzionali interessati – che poggi su due livelli: municipale e cantonale.
È evidente che se non si ha una pluralità di sovranità, non è possibile parlare apertamente di un sistema federale concreto e realizzato. Su questo punto Miglio era inflessibile. Inoltre, e anche qui stiamo ragionando di una elementare regola per qualsiasi sistema politico-istituzionale che si voglia configurare come federale, occorre costruire una reale autonomia fiscale per gli enti che compongono la Federazione.
Un intellettuale eclettico
Egli fu un pensatore, un intellettuale straordinariamente eclettico. La sua immensa cultura gli permise di svariare in più campi del sapere: dalla sociologia al diritto, dalla storia del pensiero politico alla scienza dell’amministrazione fino, addirittura, all’architettura (solo per citare un aneddoto curioso, progettò di persona – in maniera minuziosa e scrupolosa come solo Lui riusciva a fare – la casa dove abitò con la sua famiglia e quella dell’amata sorella).
Il suo pensiero – fortemente legato alla realtà concreta dei fatti – era improntato al cosiddetto realismo politico. Maestro di questa corrente di pensiero fu Carl Schmitt, giurista tedesco di grandezza siderale. Un pensatore che venne fatto scoprire in Italia proprio da Miglio, il quale decise di curarne la traduzione in italiano. Lo studio e l’analisi di questo pensatore rappresentarono per Miglio – senza alcun dubbio – un’importante crescita di conoscenza e di concezioni sul diritto e la Politica, che lo portarono a divenire, né più né meno, proprio parafrasando quanto disse su di Lui lo stesso Schmitt, “il maggior conoscitore delle istituzioni e l’uomo più colto d’Europa”.
Pur convinto fortemente delle proprie idee e delle proprie scoperte scientifiche sulle cosiddette Regolarità della Politica, per Miglio una dimostrazione scientifica non era mai una “conquista” definitiva. Quando affrontava un tema, un argomento, una propria ipotesi di ricerca che nella maggior parte dei casi i suoi colleghi o non vedevano o non riuscivano nemmeno ad intuire, lo faceva sempre con un profondo spirito critico, senza dogmatismi. Il dubbio, infatti, era connaturato con la sua mente, con il suo modo di ragionare. Mai e poi mai credeva – una volta raggiunta la dimostrazione di una propria ipotesi scientifica – che la stessa fosse poi caratterizzata da immutabilità perenne, da certezze inconfutabili. Anche in questo stava la sua grandezza di pensatore e di studioso, ovvero la capacità – che lui possedeva rispetto ad una miriade di professori e Scienziati della Politica che credono di avere la “verità in tasca” – di confutare e rigettare completamente una propria teoria, nel caso la realtà dei fatti avesse dimostrato la non validità di quanto da lui sostenuto.
È da qui che sorge – con tutta la sua forza e la sua carica innovativa – il forte desiderio in Miglio alla continua ed incessante ricerca, alla volontà di indagine permanente e di scoperta, caratteristica che – dal mio modesto punto di vista – dovrebbe possedere chiunque studi la realtà politica e sociale, in qualsiasi contesto si trovi ad operare.
Miglio, un “uomo libero”
Il silenzio sui suoi lavori, scritti, lezioni universitarie ecc. è andato avanti e continua, purtroppo, ancora. Un silenzio che oserei definire – senza retorica – assordante ed ingiusto. Un silenzio voluto, per via della scomodità del personaggio, del suo essere, sempre, diretto e spietato nelle sue riflessioni. Come ha scritto il politologo Panebianco i grandi realisti (come era Miglio) sono sempre personaggi scomodi, perché ricordano incessantemente quello che dà fastidio sentirsi dire. Perché hanno il coraggio – come Miglio ebbe sempre nel corso della sua vita – di dire quello che pensano, anche se controcorrente e anche se la cosa può dare fastidio a qualcuno o può andare a toccare dei meccanismi ormai oleati e costanti. Per concludere questo mio ricordo di Miglio, riporto una frase che dice più di tutti i ragionamenti e i dibattiti sul suo pensiero e sulla sua figura; una frase che lui ripeteva spesso: “La politica, lo Stato, le regole democratiche sono solo parte di un gioco, un grande gioco che cambia continuamente. Spero di non essere ancora del tutto rimbambito il giorno in cui mi vedrò cadere le colonne su cui si regge lo Stato nazionale”.
Per gentile concessione dell’autore da https://robertomarraccini.wordpress.com/2025/08/10/il-teorico-del-federalismo/
Credit foto Piazzo