di ROMANO BRACALINI – Ogni luogo ha una carica di simboli riconoscibili che ne spiegano la scelta. L’Italia è sempre stata un mosaico, ciò che ha rappresentato la sua ricchezza e la sua diversità – a dispetto di un presunto unanimismo unitario – in cui a causa di questa molteplicità di storie e di culture, non era sempre facile ravvisare un elemento comune di identità. Gli stati preunitari italiani erano governati da dinastie straniere, sia pure italianizzate. I Savoia chi erano se non gli antichi vassalli del re di Francia calati in Italia dalle giogaie svizzere? A Torino la lingua dello stato era il francese, mentre la nobiltà subalpina si esprimeva in dialetto e considerava l’italiano, sorta di toscano ripulito, poco meno di una lingua straniera. I Borboni, cresciuti a maccheroni, erano d’origine spagnola, ma parlavano solo napoletano e avrebbero fatto fatica a riconoscere i vantaggi dell’indipendenza italiana avendo a cuore, come disse re Ferdinando I allo scrittore francese, Marc Monnier, solo “l’indipendenza napoletana”.
Roma aveva uno status speciale che esulava da ogni carattere politico contingente. Era la città del papa e il centro della cristianità. Non a caso entrò per ultima, e con qualche riluttanza, nella nuova compagine statale italiana che s’era formata tra interventi militari stranieri, trame diplomatiche, baratti e il disinteresse del popolo. La Toscana e il Lombardo-Veneto, gli stati meglio amministrati, dipendevano da Casa d’Austria. L’arciduchessa Maria Luigia governava il ducato di Parma e Piacenza. Le antiche dinastie autoctone italiane, dai Medici ai Gonzaga agli Estensi ai Visconti, erano decadute (o erano sulla via di esserlo) con le guerre di predominio tra Quattrocento e Cinquecento. In Italia comandavano tutti, tranne che i legittimi cittadini. Restava Venezia, che aveva dominato il mare e illuminato i secoli con la potenza delle armi e la civiltà delle sue istituzioni. Venezia era dei veneziani. Nessuno antico stato avrebbe potuto dire la stessa cosa. Quando la potenza ottomana cominciò a minacciarla su mare, nonostante alcune clamorose vittorie, come quella di Lepanto nel 1571, Venezia non riuscì a impedire una lenta ma inesorabile erosione dei suoi possessi nell’Egeo e nell’Adriatico.
La perdita di Cipro e della Morea la privavano delle basi strategiche che le avevano permesso fino a quel momento di resistere all’invasione musulmana. Per neutralizzare la continua minaccia da ovest, dopo una lunga guerra col Ducato di Milano, Venezia decise di stabilire i confini della sua estensione nella terraferma veneta. Nel 1405 l’esercito veneziano occupò Verona che fece libero atto di dedizione alla Serenissima, seguita dalle altre città venete. Così il sistema compatto e omogeneo di territorio che andava fino al confine lombardo costituì il Dominio veneziano “da terra”. Venne concessa una sorta di Costituzione politico-istituzionale, di tipo federativo, tra la Serenissima e i territori, le città venete e le molte comunità di valle che erano presenti nel vasto dominio. Città e comuni ebbero una larga autonomia, Venezia inviava i legati a rappresentare la Serenissima e i cittadini potevano mandare i loro ambasciatori a illustrare al doge le loro necessità.
Gli ordinamenti d’epoca comunale vennero restaurati, dopo gli arbitri e le limitazioni delle antiche signorie, le antiche libertà vennero assicurate dalla repubblica che anzi le rafforzò e le legittimò con proprie leggi rinegoziando, all’occorrenza, i contenuti giuridici delle autonomie, le esenzioni fiscali e le forme di unione con la Serenissima. Il leone di San Marco che decora la bandiera della Serenissima domina ancora le antiche fortezze, gli edifici, le torri dalla Dalmazia a Bergamo e Brescia. Nella furia iconoclasta che scoppia ad ogni cambio di regime italiano, i simboli calmi della grandezza veneziana restano dove sono stati messi senza iattanza o prepotenza. Venezia era questo e lo è ancora. Non vi sarà la festa di settembre. Sarà l’occasione per ricordare.
Venezia era caduta per l’esaurirsi di una missione storica. Non fu vinta o conquistata. I suoi nemici vi entrarono da ladri come in una casa lasciata incustodita. Cadde nelle mani di Napoleone che, con calcolo di sensale, la cedette all’Austria; col plebiscito farsa del ’66, dopo una guerra ingloriosa, venne annessa all’Italia. Ma il ricordo della Serenissima non andò perduto.
(da “Il Federalismo”, anno 2004, direttore responsabile Stefania Piazzo)