Uccidere i sacerdoti? Ne hanno inflizati tanti…

erdogan

di ROMANO BRACALINI – Il Pera Palace Hotel, sulla collina omonima di Istanbul, con vista su-perba sul Bosforo e sul Corno d’oro, un tempo di proprietà belga, era destinato ai viaggiatori europei che tra Ottocento e Novecento giunge-vano a Costantipoli col mitico Orient Express. Lo storico albergo, tra i più suggestivi di Istanbul, è ancora in attivi-tà. Nel grande salone sono esposte le portantine con le quali gli inservienti andavano alla Stazione ferroviaria a prendere gli illustri ospiti. Nel silenzio degli ambienti signorili, tra ferri battuti, stucchi dorati e velluti rossi si respira l’atmosfera della vecchia Turchia otto-mana. Le suite e le stanze sono intitolate agli ospiti famosi che vi soggiornarono: scrittori, poeti, politici. Mi è capitato di dormire nella stanza di Mustafà Kemal Ataturk. Il suo ritratto era sopra il cassettone, davanti al mio letto. Era raffigu-rato con un berretto di astrakan nero, nell’abito civile scuro da cerimonia, lo sguardo imperioso. I suoi occhi cerulei, come di giaccio, non cessavano di fissar-mi. Dormire con Ataturk non rientrava
nei miei piani immediati.

Ataturk (ossia “padre dei turchi”), morì ancora giovane a Istanbul nel 1938, per cirrosi epatica (aveva un debole per l’alcol e le belle donne). Rendeva omaggio al precetto musulmano per metà.
Voleva una Turchia laica e moderna, sul modello europeo, catteri arabi, il voto alle donne, l’abolizione del fez e del velo, simboli di arretratezza e sudditanza al vecchio ordine, affidò ai militari il compito di vegliare sulla laicità dello stato. Come riformatore “civile” non credo credesse nel “paradiso all’ombra delle spade” di cui parla Maometto. Ma qualunque parte si trovi, non vedrebbe che il fallimento della sua opera.

L’Islam, nella versione più radicale e fanatica, sta riconquistando la Turchia. Il partito religioso, vietato fino a pochi anni fa, domina nel Paese. Appena qualche anno fa l’omicidio di un prete cattolico nella tollerante Turchia sarebbe sembrato impossibile. Anche prima dell’avvento di Kemal Ataturk le colonie greche o cattoliche di Smirne, Istanbul o Trebisonda vivevano in pace. Nessuno le minacciava. Il fanatismo religioso non ha mai attecchito in Turchia. Oggi il contagio fondamentalista si sta allargando in maniera impressionante anche nei Paesi che ne erano sempre stati immuni. È un segnale inequivocabile di guerra totale all’Occidente. Dobbiamo prenderne atto e non dare ascolto ai predicatori di “buonismo”, laici e cattolici. Hanno ammazzato un prete per fanatismo religioso e odio all’Occidente! Cosa si vuole ancora?

L’esperimento “laicista” in Turchia è durato meno di 50 anni. Mille anni di storia non si cancellano in così breve tempo. Il nazionalismo, che ha sempre caratteriz-zato la società turca, torna a ispirare il sentimento antioccidentale. Se Erdogan aspira a entrare in Europa per questioni essenzialmente economiche (l’enorme debito, l’inflazione galoppante la miseria in Anatolia e nel Sud-Est), di converso prende forza il partito antieuropeo, ossia la corrente nazionalista che si riallaccia alla tradizione e alle antiche glorie, e sogna il ritorno di un nuovo grande impero turco comprendente le nazioni turcofone, un tempo soggette all’Urss,
dell’Asia centro-occidentale.

Nei miei viaggi in Turchia ho avuto la sensazione di un progressivo abbandono delle fogge e degli usi occidentali e la parallela affermazione dei simboli della tradizione islamica. Di pari passo è cresciuto il risentimento contro l’Occidente, di cui la maggioranza dei turchi sono consapevoli d’essere stati nei sei secoli i naturali nemici e contendenti. Decaduto e sconfitto il califfato ara-bo il sultanato ottomano, nuova potenza emergente in Medio Oriente, si impossessò degli antichi territori arabi nel Levante asiatico e in Africa. Lo scontro con l’Occidente cristiano era inevitabile per sapere quale delle due civiltà avrebbe prevalso. Da quel momento le coste italiane, dal Sud al centro delle penisola, non furono più al sicuro. Le torri di avvista-mento poste a distanza di voce l’una dall’altra dovevano sorprendere le mosse del nemico e dare l’allarme.

Il grido di terrore che si diffuse tra le popolazioni meridionali: ”Mamma li turchi”, si è tramandato come un segno di ricorrente pericolo e di ferocia. I turchi hanno un complesso di inferiorità nei confronti dell’Europa. Vorrebbero farne parte, per potersi dire uguali a essa, ma sanno che saranno sempre un’altra cosa. La mia guida ad Ankara temeva i miei giudizi, perché ferivano il suo orgoglio e i suoi sentimenti patriottici. Un giorno gli dissi che credevo di essermi fatto un’idea della Turchia. Mi rispose eccitato. «Non dirmelo, sennò mi arrabbio!». Dava per scontato che il mio giudizio non fosse benevolo e sinceramente gli dispiaceva. Poi, come indovinando il mio pensiero, disse ridendo: «Mamma li turchi!».

In Turchia ho sempre conosciuto perso-ne affabili e gentili. Ma il Paese è rimasto un cuscinetto caotico e polveroso a ca-vallo tra Europa e Asia. Il traffico di Ankara o di Istanbul o di Smirne farebbe apparire ordinato e civile quello di Castrovillari o Catania. I ricconi a bordo di macchine di lusso, padroni assoluti della strada, hanno licenza di vita e di morte sui passanti, che fanno appena in tempo a scansarsi e non protestano per-ché non serve a nulla. Il mio taxista per poco non metteva sotto uno. Al mio sbigottimento ha alzato le spalle ridendo. Avesse investito un cane o un pollo sarebbe stato lo stesso.

In Turchia la vita costa poco. Sarà anche per questo che non sono mai riuscito a vincere una certa repulsione, un senso profondo di estraneità e di timore, sì di timore. Il timore che provo sempre nei Paesi di scarsa tradizione civile e liberale, nei Paesi in cui le libertà individuali non sono garantite e nulla ti protegge dall’arbitrio di leggi autoritarie. La Turchia vuole entrare in Europa ma anche se glielo consentissero la storia e la geografia (il che non è) non avrebbe ugualmente le carte in regola.

Il nuovo articolo 306 del Codice penale punisce con 10 anni di carcere chi affer-ma che il popolo armeno ha subìto un genocidio. Parecchi scrittori turchi sono finiti in galera per averlo affermato. In
Turchia non è vero per legge. Come si può conciliare il nostro concetto di diritto con quello turco che nega l’evidenza? Anche i curdi, entrati a far parte della Turchia dopo la Prima guerra mondiale, sono stati massacrati e deportati. Non possono parlare né insegnare il curdo, le loro scuole sono state chiuse, proibito stampare opere in lingua curda. Negati tutti i diritti civili. Il Kurdistan, nel Sud-Est del Paese, non compare sulle carte geografiche turche.
Durante un reportage televisivo sulla questione curda un’auto della Polizia turca ci seguì da Smirne fino a Istanbul. I poliziotti erano in borghese su un auto senza contrassegni ma li avrei riconosciuti lontano un miglio. Non riuscivo a togliermi dalla mente il tratto violento e feroce del carattere guerriero turco. Riandavo con la memoria a vecchi ricordi scolastici. Nella cattedrale di Otranto, in Puglia, dove la minaccia ottomana era costante, sono raccolte in lugubri vetrinette del-l’abside le 800 teste cadute sotto la sci-mitarra dello spietato Ahmet Pascià, detto lo Sdentato. La città era caduta in mano turca nel 1480 e il terrore si diffuse in tutta la cristianità perché quello sbar-co fu ritenuto la prova generale dell’at-tacco dell’Islam all’Occidente cattolico, quasi una risposta alle guerre dei crocia-ti in Palestina e un avvertimento per gli
avamposti cristiani in Medio Oriente.

Le palle di pietra dei cannoni turchi che sgretolarono la disperata difesa degli assediati sono rimaste nelle stradine medievali laddove caddero nel ricordo di uno dei più devastanti e crudeli bombardamenti dell’epoca. Secondo il codice musulmano di ferocia e di accanimento sul nemico vinto, che non muta nei secoli, i superstiti vennero passati a fil di spada. Nessuno venne risparmiato. Un episodio rimasto profonda-mente radicato nella fantasia popolare, fin dal momento in cui all’orizzonte comparvero le vele nere della formidabile flotta ottomana venuta a razziare e terrorizzare pacifici paesi. Fu un immondo massacro di inermi. Sacerdoti sgozzati sull’altare dal quale avevano celebrato l’eucarestia, le scimitarre insanguinate, le urla delle donne e dei bambini, i tentativi inutili di fuga, quando dalle brecce fu-manti del castello irruppero i cavalieri turchi a completare la carneficina.
L’antichità ci rende incompatibili, ma il passato non deve ipotecare il presente. Il fatto non è questo. L’Occidente ha molte colpe, di cui si rende conto, ed è la consapevolezza e l’umiltà di riconoscerlo che ci innalzano al di sopra dei nemici. L’Oriente, al contrario, crede di avere il diritto a tutte le efferatezze e in questo consiste la sua debolezza. La Turchia, nella sua duplicità, e nell’incertezza di decidere da che parte stare, se con la modernità o con il Medio Evo, è ancora di fronte a un difficile dilemma. Non ha mai risolto. L’Occidente, dal canto suo, non è mai stato così sicuro del suo buon diritto, come davanti allo spettacolo iracondo dell’Islam primitivo e rozzo, purché non manchi di rispondere alla sfida dell’oscurantismo con le armi più idonee e appropriate, al momento opportuno. Senza esagerare, senza esitare. La peste si combatte, non si lascia contagiare, quando abbiamo i mezzi per farlo. Il fondamentalismo islamico è la peste del XXI secolo.

Le bocche sdentate e ferine delle masse musulmane che assaltavano le rappresentanze diplomatiche occidentali e bruciavano le bandiere danesi, francesi, europee (c’è andata di mezzo anche una bandiera svizzera scambiata dagli analfabeti per danese) ci riportano ai secoli bui della peste e dei massacri. Il primo impulso è di compassione e di profonda pietà per questo mondo arretrato. Purché l’occhio resti vigile, il cuore saldo e l’arma al piede. Quando sarà, i turchi non saranno con noi. Meglio dircelo subito!

(da il settimanale Il Federalismo, direttore responsabile Stefania Piazzo)))))

Print Friendly, PDF & Email
Articolo precedente

La spesa pubblica, l'unico programma dei partiti per non andare mai a casa

Articolo successivo

Saluzzo, l'artigianato rivive nella sua mostra nazionale