Sud 1/ Meridione ricco e progredito prima dei Savoia. Davvero?

di ROMANO BRACALINI

Quando nel 1900 Francesco Saverio Nitti, politico e scrittore meridionale, pubblicò il libro “Nord e Sud”, ovviamente per difendere il “povero” Sud e vantarne gli inesistenti primati, Gaetano Salvemini, pugliese, dopo averlo letto, esclamò da par suo: ”Non mi meraviglierei se Nitti, da buon meridionale, avesse falsificato le cifre”. E’ una tentazione ricorrente nei paladini del Sud e specie nel redivivo movimento neoborbonico. I lettori dell’Indipendenza ne hanno avuto un recente saggio. E tuttavia benché al Sud sia tradizione abbandonarsi al piagnisteo e dare sempre la colpa agli altri, non sono mancati meridionalisti e storici di vaglia, come appunto Gaetano Salvemini, Giustino Fortunato, Rosario Romeo, Arturo Labriola e altri, che alla manipolazione delle cifre hanno sempre preferito la fredda e obiettiva rappresentazione dei fatti ed è a questi studiosi onesti che ho sempre fatto riferimento nei miei lavori, anche nel mio ultimo libro “Brandelli d’Italia”, edito da Rubbettino.
Al momento dell’unità nel Mezzogiorno restavano le vestigia del feudalesimo. La società era immutabile. Giustino Fortunato dice che nessuno immaginava che mezza Italia, dal Lazio e dagli Abruzzi in giù, poco difforme dalla Turchia, ad essa così prossima, sarebbe stata come un vaso di coccio accanto a uno di ferro. Aggiunge, nel suo epistolario pubblicato da Laterza, che da un luogo all’altro si andava a dorso di mulo come nei secoli passati. Nel settentrione, le strutture sociali e l’atmosfera culturale dell’epoca comunale avevano sviluppato legami “orizzontali” e favorito la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica e il senso civico diffuso. Nel meridione, invece la “frattura” tra governo e popolo, risalente alla monarchia feudale normanna, si era allargata durante tutta l’epoca moderna e i rapporti sociali si erano sviluppati sull’asse “verticale” dei privilegi, delle clientele, dei favori. Non governano i più capaci e meritevoli, ma quelli che danno maggiori garanzie di fedeltà al sovrano. Il senso civico latita, perché il risentimento meridionale si esercita nel danneggiare il bene pubblico che essendo pubblico non è di nessuno. Provate a visitare un giardino pubblico al Sud. Se trovate una panchina intatta, è un miracolo. Le città meridionali sono ancora oggi disordinate e sporche. E’ il paesaggio medesimo che testimonia della educazione civica di un popolo. Dal 1504 al 1860, l’Italia meridionale passò dal dominio spagnolo a quello dei Borboni i quali con un sistema d’arbitrio e di corruzione diffusero la convinzione che si potessero conseguire incarichi e onori solo con la furbizia, l’inganno, la piaggeria. Al Sud la mentalità non è cambiata.
Quanto a un Sud industrializzato, basta lo studio accreditato dell storico Pasquale Villani a confutare il quadro d’ottimismo. Nel 1811 il 90% della popolazione del regno di Napoli era classificata “povera, indigente, ai livelli minimi di sussistenza”. Non c’era borghesia moderna, la società era divisa come nel Medio Evo in nobili, latifondisti e plebe analfabeta. L’agricoltura era primitiva. Non strade, non porti degni del nome, sui fiumi spesso in piena non vi erano ponti, non utilizzo delle poche acque del regno. Agli emissari del re sabaudo parve d’essere arrivati in un altro mondo. Si impose subito una scelta di vita. Fortunato dice che senza l’unità il Mezzogiorno sarebbe diventato un paese balcanico. C’è riuscito senza sforzo, nonostante la forza trainante del Nord. Al Sud, la grande industria manifatturiera non era quasi sorta. Ad eccezione di una piccola zona industriale intorno a Napoli (Poggioreale), degli stabilimenti della valle dell’Irno e del Liri, di piccole industrie alimentari (maccheroni) e tessili prevalentemente in Campania, delle ferriere in Calabria (alimentate a legna), non vi era traccia di opifici moderni, e ciò per difetto di capitali, mancanza di iniziativa individuale, scarsezza di strade rotabili e di ferrovie. In tutto il Sud, fino al 1860, c’erano solo 90 chilometri di ferrovie, contro i 1800 chilometri del Nord.
Quando al Nord si venne a conoscenza di queste misere condizioni, i più espressero la convinzione che era meglio abbandonare il Mezzogiorno al suo destino. Il Nord pagava più tasse, il Sud consumava più di quanto producesse. Il divario pareva insormontabile. Il progresso economico e industriale del Nord poteva essere paragonabile a quello dell’Inghilterra, della Francia, della Germania; lo sviluppo delle regioni meridionali era paragonabile a quello dell’Algeria dell’epoca. Metà della ricchezza nazionale, calcolata in 65 miliardi di lire, era prodotta nel Nord-Ovest il quale deteneva l’85 per cento dell’intero prodotto nazionale nei settori dell’industria e dei servizi. Quando nel 1861 il Sud insorse con le armi contro lo stato italiano, in quella che è stata chiamata “guerra al brigantaggio”, Massimo D’Azeglio dichiarò: ”Se non ci vogliono, peggio per loro, vuol dire che non ci porteremo dietro questa grossa e sdrucita barca dell’Italia meridionale”. Anche Salvemini era convinto che convenisse a entrambi, “nordici e sudici”, andare ciascuno per la propria strada.

I meridionali dicono che la rovina del Sud furono i Savoia. Davvero? Allora come si spiega che nel 1946, nel referendum repubblica-monarchia, i meridionali compatti, dal Roma in giù, votarono Stella e Corona? Se non c’era il Centro-Nord, dalla Toscana in su, avevamo ancora “lu re”.

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