Chi era ragazzino negli anni della II G.M. ha potuto vedere il crepuscolo d’una società classista. Le differenze tra poveri e ricchi erano marcate non solo nel linguaggio che consentiva alle classi agiate un miglior eloquio, e chi parlava in idioma autoctono era naturalmente relegato tra le classi meno abbienti, ma nel vestire come per altri mezzi esteriori. Sulle porte delle chiese era ancora affisso “l’indice” dove si poteva apprendere che quel determinato libro era da considerarsi buono, mentre un altro non lo era. Quello spettacolo teatrale o cinematografico era consigliato, un altro no. Certi fumetti erano edificanti, quelli di Walt Disney no. Gli oratori parrocchiali erano praticamente gli unici luoghi di aggregazione e di gioco a disposizione dei giovani; ma per beneficiarne si riceveva un’educazione o indottrinamento cristiano.
Possiamo genericamente affermare che fu a partire dal 1955 che cominciò una svolta. Infatti, era l’anno in cui l’US Army si trasferì armi e bagagli in Italia, provenendo dall’Austria che era stata contemporaneamente lasciata anche dall’Armata Rossa, rendendo quello Stato neutrale similmente a quanto era avvenuto per la Finlandia.
I GI statunitensi spiccavano per le loro divise, molto più belle e funzionali di quelle usate dell’E.I., ma ancor più appariscenti erano le loro mastodontiche automobili, e sorprendeva oltre ogni dire la constatazione che giovani soldati di 21/22 anni avessero moglie e figli.
La musica americana poi aveva veramente conquistato i giovani per la sua “rivoluzione” di genere che soppiantava le melodie napoletane e romantiche, peraltro quasi sempre le stesse. In cinema con il “cinemascope” fece il resto. Insomma i costumi cambiarono, ed il modello comportamentale americano fece breccia tra la gioventù di quegli anni. Nessuno di quei giovani abituati a portare i vestiti dei propri genitori o fratelli più grandi, puntualmente rivoltati dal sarto sotto casa, sino a che questi, sconsolato, dichiarava di non poter più “ammodernare” quei panni lisi, e che subito si buttarono entusiasticamente a sfoggiare i blu jeans che non erano certo quelli firmati dai grandi couturière d’oggi; nessuno di quei giovani, dicevamo, aveva la minima idea di come funzionasse il “modello USA”.
Eppure sarebbe bastato consultare qualche vecchio libro tenuto in casa per rendersi conto di quale realtà si stava abbracciando. Per esempio c’era un testo di Adolfo Rossi, originario della provincia di Rovigo, che aveva scritto «Nel paese dei dollari (Tre anni a New-York)» oggi scaricabile gratuitamente da Internet: Editoria, Multimedia http://www.e-text.it.
Il libro pubblicato nel 1892 dai fratelli Treves con il titolo: «Un italiano in America,», dopo aver raccontato i viaggi e casi occorsi ad un ragazzo spensierato, prima sulla costa atlantica e poi nel lontano ovest nordamericano, narrava come fosse stato invitato a tornare a New-York per assumere la direzione del Progresso Italo-Americano. E chiudeva il volume con queste parole: «Feci le valigie, presi il treno quel giorno medesimo e tornai alla metropoli dove mi fermai più di tre anni, fino a quando, cioè, la nostalgia mi richiamò in patria». Ma si trattava di un emigrante privilegiato. Infatti, nell’opera egli descrive d’essere stato, una sera, ospite ad una sfarzosa festa data dai Vanderbilt famiglia di multimilionari. E rifletteva: «Come mai – domandavo quella notte al mio amico uscendo dal ballo – hanno potuto questi individui accumulare tanto rapidamente ricchezze così enormi?
Non era difficile la risposta: con le speculazioni più arrischiate, con la frode e con le corruzioni. La vita di tutti i re della Borsa e dei magnati ferroviari americani, non è che una storia di imbrogli. È impossibile mettere insieme dal nulla, con mezzi onesti e in pochissimi anni, simili sostanze. Il più meschino dei predetti magnati delle ferrovie è molto più ricco dell’opulento ed arrogante Marco Crasso, la cui fortuna veniva considerata la più colossale della Repubblica Romana.
I fondatori delle dinastie reali degli Asburgo, degli Hohenzollern e via dicendo erano briganti o soldati di ventura, ma almeno arrischiavano continuamente la vita per la fama e per la fortuna. La nuova aristocrazia americana, invece, ha sostituito la scaltrezza al coraggio, la frode e le arti della corruzione nella politica ai pericoli del campo di battaglia. La maggior parte di questi milionari si sono insomma arricchiti ingannando il pubblico e corrompendo le persone alle quali il popolo aveva affidata la legislazione degli Stati e della Nazione.
– Certe operazioni di Borsa – mi diceva il mio amico, pratico di Wall Street – sono così immorali che quando si verificarono ultimamente alcuni grossi fallimenti, avendo la stampa gridato allo scandalo, il governo ordinò una inchiesta sui corners e sui futures.
– Che cosa significano queste parole?
– Sono colpi di mano che gli speculatori più furbi e più pratici fanno a danno dei piccoli capitalisti: sono nuovi imbrogli non preveduti dai codici. Il Comitato incaricato dell’inchiesta credette bene di cominciare le sue investigazioni chiedendo informazioni e schiarimenti ai giocatori più famosi e fortunati, a Vanderbilt, Gould e Hatch, tre colossi di Wall Street, la trinità che impera sulla Borsa di New-York. Figurarsi se costoro, che s’ingrassano di corners e di futures, hanno dato al Comitato risposte tali da provocare una legge contro le loro speculazioni!
– Mi pare che sia come se un agente di polizia incaricato di una investigazione sulle gesta di una banda di briganti, si rivolgesse per avere spiegazioni ai capi della banda stessa!
– Precisamente. I milionari interrogati risposero scherzando. Essi sapevano che l’inchiesta sarebbe finita in nulla. Gli speculatori, che rovinano spesso tante famiglie, che riducono tanti giocatori a farsi saltare le cervella, sono gente fuori delle leggi. Basta pensare che le ferrovie degli Stati Uniti sono valutate sei miliardi di dollari e che meno di una ventina di individui amministra a suo talento più della metà di questo immenso capitale.
Non c’è da meravigliarsi se questi signori spadroneggiano anche nei tribunali. Le amministrazioni stesse degli Stati si trovano alla loro mercé, poiché nella maggior parte degli Stati i loro impiegati sono abbastanza numerosi per eleggere i pubblici funzionari. Venti dei principali direttori di strade ferrate se si coalizzano possono decidere delle principali elezioni per mezzo degli impiegati di cui regolano i voti.
– Vedo, purtroppo, che tutto il mondo è paese». Concludeva.
Naturalmente non è che l’Italia non avesse sperimentato comportamenti altrettanto disinvolti; tuttavia il modello civico di quegli anni era improntato allo studio ed al lavoro come riscatto sociale, non già alla speculazione per arricchirsi a qualsiasi costo.
Nelle terre Venete, per osmosi millenaria, esisteva un diverso spirito civico. Un esempio tra i molti lo potremmo rilevare nella figura del Doge Leonardo Loredan (Venezia, 16 novembre 1436 – Venezia, 21 giugno 1521) che fu il settantacinquesimo doge della Repubblica di Venezia. Fu un Doge abile e saggio politico e riuscì a tutelare Venezia in un periodo molto difficile della sua storia. Eletto il 2 ottobre 1501 dovette, durante il suo dogado, accettare un’onerosa pace con l’Impero turco (1503), ed affrontare la Lega di Cambrai [per l’epoca era un po’ come se l’intera Europa si fosse coalizzata contro Venezia] che portò a lungo la guerra nei territori veneziani di terraferma (1509 – 1517) con l’intento, fallito, di distruggere la potenza di Venezia.
Se Venezia, dopo la guerra mediterranea, cercava la pace non erano disposti a dargliela i suoi nemici. Alla morte del Papa Alessandro VI nel 1503 [qui è necessario contestualizzare: Alessandro VI alias Rodrigo Borgia è padre di Cesare Borgia il “Valentino” sulla figura del quale Niccolo Machiavelli scrisse “Il Principe”, e sua sorella è Lucrezia Borgia. Insomma siamo in piena età di veleni e pugnali]. Venezia occupò, in quel lasso di tempo, svariati territori dello Stato Pontificio. Quando fu eletto Giulio II come successore di Alessandro, i veneziani si aspettavano che le loro conquiste all’interno dello Stato Pontificio sarebbero state tacitamente accettate, poiché Giulio era stato soprannominato Il Veneziano per le sue simpatie a favore di Venezia. Invece il nuovo Papa scomunicò la Repubblica e strinse un’alleanza con la Francia, il Sacro Romano Impero e diversi stati cristiani. La potenza economica e politica e le sue eccessive ingerenze negli affari della terraferma italiana coagularono una coalizione (Lega di Cambrai) formata principalmente dalla Francia, dalla Spagna, dal Papato, dall’imperatore Massimiliano ed altri principi italiani con il preciso scopo di distruggere la potenza lagunare e dividersene le spoglie. Venezia, forse in un eccesso di arroganza e sottovalutazione dell’avversario, si curò solo troppo tardi di questa situazione e non fu in grado d’organizzare un’efficace campagna diplomatica per arginare questo attacco.
Trovandosi sola contro massicce forze nemiche Venezia formò un poderoso esercito di oltre 30.000 soldati per resistere in attesa d’un accordo. L’avventatezza e la scarsa disciplina delle truppe venete però portò alla sconfitta nella Battaglia di Agnadello (17 maggio 1509) e la perdita quasi totale della terraferma veneta. Le terre venete furono messe a ferro e fuoco ed alcuni colpi di bombarda raggiunsero i margini della laguna veneziana. Il panico generale della nobiltà e del popolo venne arginato proprio dallo spirito del Loredan che, sorretto dalle notizie di rivolte popolari a favore di Venezia nelle città occupate, celebre fu quella di Treviso, spronò i Senatori e i cittadini ad arruolarsi e a donare grandi somme di denaro per la difesa di Padova che stava per essere assediata dall’esercito di Massimiliano, si offrì egli stesso, ma dopo il rifiuto da parte del Senato, alcuni suoi figli andarono verso Padova con armi, provviste e denaro. Le prime vittorie veneziane e lo sfaldarsi della Lega permisero a Venezia di passare all’offensiva, grazie anche all’instancabile opera del provveditore e futuro doge Andrea Gritti, e riconquistare la maggior parte dei territori.
Nel 1510, in un turbinoso mutare di alleanze, il papato dell’irrequieto e bellicoso Giulio II s’alleò con Venezia in funzione antistraniera e la guerra si spostò in Romagna. La guerra, passato il punto culminante, proseguì a fasi alterne fino alla pace con la Francia a Blois (1513); l’unico avversario rimasto, l’imperatore Massimiliano, proseguì sempre meno convinto e nel 1517 si decise ad aderire anch’egli alla pace in cambio di Rovereto e Riva.
Durante questo periodo, secondo i cronisti, il Loredan, dimentico dell’esempio del 1509, si comportò in modo poco serio, senza dare i giusti incitamenti e pensando più ai suoi affari che a quelli dello stato. Comunque nel 1515 commissionò all’ingegnere militare Sebastiano Mariani la realizzazione delle fortificazioni della città di Padova.
La fine della guerra ed il comportamento del doge, che forse pensava di doversi godere gli ultimi anni di vita piuttosto che dedicarli all’amministrazione, comportarono una rilassatezza di costumi nella società veneziana. Vi furono molti scandali finanziari e molte cariche pubbliche vennero acquistate piuttosto che ottenute per merito. In questo periodo il doge comprò cariche per figli e parenti, usando al massimo la sua influenza.
Nonostante i desideri del Loredan egli non poté condurre a lungo questa piacevole vita visto che iniziò ad essere afflitto da problemi di salute. Attorno ai primi giorni di giugno cominciò a peggiorare e presto gli si formò una cancrena ad una gamba. Ogni intervento fu inutile e la cancrena dilagò, uccidendolo nella notte tra il 20 ed il 21 giugno 1521.
Si dice che, per avvisare i consiglieri ed i reggenti dello stato, la notizia della sua morte venne taciuta dallo stesso figlio del doge e venne comunicata solo in tarda mattinata.
L’affarismo ed il comportamento non esemplare degli ultimi anni non sfuggì al vigile occhio degli Inquisitori sopra il morto, magistratura creata dopo la morte di Francesco Foscari incaricata di indagare sul “rendiconto” finale del dogado. Forse il processo fu montato ad arte a fini politici ma sicuramente vi furono degli ammanchi se gli eredi del doge, pur difesi dall’avvocato Carlo Contarini, uno dei migliori dell’epoca, vennero condannati ad una multa di 2700 ducati.
Tornando ai giorni nostri va ricordato che proprio vent’anni fa Giuliano Amato, da Presidente del Consiglio, confessava la somiglianza, se non proprio la continuità, tra il regime di Mussolini e il regime postfascista. Diceva Amato che la repubblica antifascista aveva declinato al plurale (i partiti) il regime che Mussolini aveva declinato al singolare (il PNF).
Ne concludiamo che solo lo spirito civico connaturato alle genti venete, unitamente a strumenti di democrazia diretta simili a quelli esercitati nella vicina Svizzera, consentiranno un salto di qualità della vita pubblica; ma di questa opportunità si sentono flebili echi nella campagna elettorale per le amministrative del prossimo maggio, da parte di sedicenti partiti indipendentisti. Occorre non dimenticare che tutte le avventure si somigliano quando sono dovute a politicastri, che spingono il popolo nella via delle rivoluzioni senza averlo preparato alla pratica della libertà.
Un richiamo esplicito a queste radici contribuirebbe, in tempi di miseria e di disorientamento culturale, intellettuale e morale come quelli che stiamo vivendo, a dare un senso alla nostra coscienza democratica. L’assenza di questo richiamo accresce il senso di vuoto, di disorientamento, di carenza o assenza di valori che ormai è divenuto allarmante. Occorre fare la crociata dell’istruzione civica, combattere senza posa l’ignoranza, allevare una generazione di cittadini, nella quale non vi sia uno solo che non conosca la storia politica, sociale, industriale e
scientifica dell’umanità. Poi devono predicare l’indipendenza intiera e completa, dei Comuni attraverso una effettiva organizzazione federale, e allora avremo fondato per sempre la libertà.
Solamente bisogna ricordarsi che la libertà si acquista e non si conquista, che un progresso è sempre il corollario di un altro progresso realizzato e che coi colpi di mano e con le rivoluzioni non si arriva che al dispotismo. Probabilmente un passo avanti in questo senso si avrà dopo la campagna elettorale per le amministrative.
In quel di giugno, ci si dice, dovrebbe materializzarsi un convegno a Venezia per la presentazione di una bozza di Costituzione per un Veneto indipendente, che è già stata accettata da più soggetti politici indipendentisti, e che aspetta di essere accolta da pochi altri, se non altro al fine d’indicare un obiettivo comune, poiché è indispensabile preoccuparsi, soprattutto e innanzi tutto, di cambiare le istituzioni. Avendo, ovviamente, cura d’ottenere prima il consenso della popolazione, proprio per evitare l’ennesima imposizione da parte di una élite.