SPECIALE MIGLIO 3 – Contro i politici di professione

talebani euro

di AUGUSTO ZULIANI –  Sui “professionisti della politica” che infestavano l’Italia fin dai primi decenni di vita unitaria e che Gaetano Salvemini chiamava sarcasticamente i “paglietta”, individuandoli soprattutto negli avvocaticchi del Sud, scrive Miglio in Come cambiare. Le mie riforme edito nel 1992 quando si scatena la bufera mediatico-giudiziaria di “Manipulite”: «Nel quadro delle riforme che dovranno essere adottate per rigenerare la repubblica è evidente che centrale sarà la preoccupazione di combattere l’appropriazione del potere, la sua manifestazione più clamorosa: la politica come professione. Tra i mali di cui soffre l’Italia c’è senza dubbio l’eccesso di professionisti della politica: troppa gente vuole campare con rendite e profitti che derivano dal potere».

Sull’usurpazione, avviata proprio in quegli anni, da parte dei magistrati delle prerogative legittime che spettano solo al Parlamento e al Governo che ne è espressione, Miglio ci tiene a ribadire: «Ho sempre sostenuto, sulla traccia di Montesquieu, che quello dei giudici non è un potere: è una funzione ausiliaria dell’autorità sovrana. L’Italia si trova in una situazione paradossale: avrebbe bisogno di
magistrati efficientissimi (…) invece si trova dinanzi a una “armata Brancaleone” di persone per lo più politicizzate e compromesse
con i partiti».

Sul lassismo buonista nei confronti dei criminali, i cui effetti lasciano sempre più spesso tracce dolorose e luttuose nella nostra gente, Miglio sottolinea con forza che «l’amministrazione della giustizia in Italia potrà diventare meno insoddisfacente soltanto se si
capovolgerà l’interpretazione permissiva e “perdonista” dell’articolo 27 della Costituzione: le pene devono tornare ad essere tali e
devono essere scontate fino in fondo; la “rieducazione del condannato” deve essere perseguita soltanto là dove quest’ultimo si riveli oggettivamente suscettibile di un siffatto recupero; nei casi più gravi deve produrre immediatamente i suoi effetti costrittivi. La società ha il diritto di difendersi contro chi attenta alle legittime prerogative dei suoi membri».

Sferzanti sono poi le sue osservazioni sui responsabili della strategia immigrazionista che quando scriveva, oltre quindici anni fa, non aveva ancora dispiegato gli attuali effetti sociali devastanti, alimentando di fatto il brodo di coltura per le cellule terroriste. «I detentori del potere politico – dice Miglio – hanno bisogno che ci siano dei bisognosi. Non è un caso che nel momento attuale – in cui i ceti “proletari” (con buona pace di certi statistici sociali) vengono riducendosi per il nuovo modo di produrre e per lo sviluppo dell’economia privata – i detentori del potere politico stiano inventando quel che mi pare Ralf Dahrendorf definisce Ersatzproletariat un “surrogato del proletariato”, aprendo le porte ai diseredati del Terzo mondo.

Ecco il giusto punto di vista dal quale considerare lo Stato sociale. Se ci si limita a contemplare i beneficati, non si percepisce la natura vera del fenomeno. Le molle di questo meccanismo politico sono rappresentate da coloro che organizzano lo Stato sociale. Perché la dilatazione delle pubbliche erogazioni si traduce nella “produzione” (e poi nel controllo) del voto». (cit. in G. Ferrari, Gianfranco Miglio, storia di un giacobino nordista, ed. Liber Internazionale, 1993, p. 137-8). I fautori di questo disegno sono individuati nell’area del cosiddetto “cattolicesimo sociale” di cui Miglio rileva lucidamente le premesse ideologiche quando in un’intervista a La Stampa dichiara «Non posso sopportare i cattolici “sociali”. Hanno l’aria di insegnare a Dio come avrebbe dovuto fare l’uomo. La malvagità buoi: abbiamo costruito l’unità monetaria (che dovrebbe essere invece la fase finale del processo) prima di ottenere le decisioni politiche corrispondenti. E queste decisioni le cerchiamo adesso, sapendo che ci imbarchiamo in un’impresa difficilissima. L’esperienza ci insegna quotidianamente quanto sia difficile superare la separazione fra le due Europe, vissute nella contrapposizione del sistema “bipolare”: due entità che per secoli hanno fatto capo a concezioni del mondo radicalmente diverse.

E poi: come resisteranno, al processo di integrazione economica europea occidentale, la cultura e le abitudini dei grandi e piccoli Stati nazionali del continente ? Certo lo “Stato” particolare sembra in declino: ma quali soggetti prenderanno il suo posto, e con quali dimensioni e strutture? Essendo, a ragion di logica, escluso che, sotto la pressione dei banchieri, si formi uno Stato unitario europeo, nei confronti del quale le comunità nazionali sopravvivano come “province”, una Europa fatta di “euroregioni” economiche, molto flessibili e temporalmente limitate, sarà in grado di costruire e gestire un tessuto di relazioni di tipo integralmente nuovo, non vincolato, come per il passato, a rigide prescrizioni istituzionali? Se queste novità radicali non si produrranno (magari per una crisi rivoluzionaria epocale), io temo che difficilmente il nostro Paese – per le sue peculiari strutture sociali – potrà ancorarsi al nucleo “duro” dell’integrazione monetaria europea: e tutti i problemi che hanno impedito il consolidarsi di uno “Stato nazionale” italiano, riesploderanno, rendendo fatale la “rifondazione” di quest’ultimo.

L’alternativa non è tornare indietro, tornare alla Prima Repubblica: questa via è drasticamente preclusa dalle regole dell’economia e dalla montagna di debiti che già abbiamo creato. L’attuale maggioranza di centro-sinistra vive alla giornata, confidando che il meccanismo dell’unione monetaria (con una decisione “esterna”) le impedisca di tornare alla finanza allegra e allo “stato sociale” di un tempo come vorrebbero i “paleocomunisti”. C’è però una terza alternativa eventuale (la peggiore): che la “globalizzazione” mondiale delle relazioni economiche non riesca ad innescare un meccanismo sufficientemente automatico d funzionamento e di recupero degli equilibri, da rendere inevitabile un grande ritorno agli “Stati nazionali”, e alla loro tempestosa bilancia di antagonismi. In tal caso si tratterà di soggetti politici che non potranno più farsi la “vera” guerra (perché il mezzo distruttivo “ultimo” – l’arma atomica – nel cui uso la vera guerra consiste, non può essere più utilizzato senza annientare anche chi vi ricorre), ma confliggeranno in tutte le altre forme possibili. In un mondo così condizionato, i soggetti politici tradizionali (“Stati nazionali” accentrati) più deboli (come è quello in cui viviamo) sarebbero destinati a finire stritolati» (G. Miglio, L’Asino di Buridano, ed. Lativa 2001, Iª ed. 1999, pp. 100-101).

Oggi la terza alternativa sembra prevalere, scandita da attentati e stragi, da colpi di mano giudiziari e mediatici, da subdole manovre di loggia e sacrestia, sta a noi impedire che questa tempesta non ci stritoli ma anzi ci rafforzi, seguendo l’insegnamento di Miglio. dell’uomo non l’ammettono: per loro è colpa della società. Io invece accetto l’uomo così com’è, nel suo misto di bene e di male. Ecco la grande differenza, ecco perché dicono che io sono reazionario: il mio cattolicesimo è amaro e realistico, come si respirava nella Cattolica quando ero studente. (…) Il cattolicesimo edulcorato è venuto dopo, col dossettismo, con Lazzati, con un’idea astratta dell’uomo. Le anime belle, l’ “animabellismo” di tanti cattolici discende da lì: ce l’hanno con l’America, con il mercato, con l’industrialismo, con l’intero Occidente, che pure è stato creato dal Cristianesimo» (ivi pp. 142-3).

Ci piace infine ricordare le sue considerazioni sull’introduzione dell’euro e sui guai che avrebbe provocato, nel quadro di uno scenario internazionale su cui già prevedeva addensarsi fosche nubi. Scrive infatti Miglio: «(…) non sono affatto tranquillo sulla riuscita dell’esperimento monetario europeo. Per la prima volta noi abbiamo messo il carro davanti ai buoi. Abbiamo costruito l’unità monetaria (che dovrebbe essere invece la fase finale del processo) prima di ottenere le decisioni politiche corrispondenti. E queste decisioni le cerchiamo adesso, sapendo che ci imbarchiamo in un’impresa difficilissima. L’esperienza ci insegna quotidianamente quanto sia difficile superare la separazione fra le due Europe, vissute nella contrapposizione del sistema “bipolare”: due entità che per secoli hanno fatto capo a concezioni del mondo radicalmente diverse. E poi: come resisteranno, al processo di integrazione economica europea occidentale, la cultura e le abitudini dei grandi e piccoli Stati nazionali del continente ? Certo lo “Stato” particolare sembra in declino: ma quali soggetti prenderanno il suo posto, e con quali dimensioni e strutture?

Essendo, a ragion di logica, escluso che, sotto la pressione dei banchieri, si formi uno Stato unitario europeo, nei confronti del quale le
comunità nazionali sopravvivano come “province”, una Europa fatta di “euroregioni” economiche, molto flessibili e temporalmente
limitate, sarà in grado di costruire e gestire un tessuto di relazioni di tipo integralmente nuovo, non vincolato, come per il passato, a rigide prescrizioni istituzionali? Se queste novità radicali non si produrranno (magari per una crisi rivoluzionaria epocale), io temo che difficilmente il nostro Paese – per le sue peculiari strutture sociali – potrà ancorarsi al nucleo “duro” dell’integrazione monetaria europea: e tutti i problemi che hanno impedito il consolidarsi di uno “Stato nazionale” italiano, riesploderanno, rendendo fatale la “rifondazione” di quest’ultimo.

L’alternativa non è tornare indietro, tornare alla Prima Repubblica: questa via è drasticamente preclusa dalle regole dell’economia e dalla montagna di debiti che già abbiamo creato. L’attuale maggioranza di centro-sinistra vive alla giornata, confidando che il meccanismo dell’unione monetaria (con una decisione “esterna”) le impedisca di tornare alla finanza allegra e allo “stato sociale” di un tempo come vorrebbero i “paleocomunisti”. C’è però una terza alternativa eventuale (la peggiore): che la “globalizzazione” mondiale
delle relazioni economiche non riesca ad innescare un meccanismo sufficientemente automatico d funzionamento e di recupero degli
equilibri, da rendere inevitabile un grande ritorno agli “Stati nazionali”, e alla loro tempestosa bilancia di antagonismi. In tal caso si
tratterà di soggetti politici che non potranno più farsi la “vera” guerra (perché il mezzo distruttivo “ultimo” – l’arma atomica – nel cui
uso la vera guerra consiste, non può essere più utilizzato senza annientare anche chi vi ricorre), ma confliggeranno in tutte le altre forme possibili.

In un mondo così condizionato, i soggetti politici tradizionali (“Stati nazionali” accentrati) più deboli (come è quello in cui viviamo) sarebbero destinati a finire stritolati» (G. Miglio, L’Asino di Buridano, ed. Lativa 2001, Iª ed. 1999, pp. 100-101). Oggi la terza alternativa sembra prevalere, scandita da attentati e stragi, da colpi di mano giudiziari e mediatici, da subdole manovre di loggia e sacrestia, sta a noi impedire che questa tempesta non ci stritoli ma anzi ci rafforzi, seguendo l’insegnamento di Miglio.

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