di GIANFRANCO MIGLIO – L’ esercito in rotta è quello della partitocrazia (…). È cominciata la mobilitazione di tutti i partiti, grandi e piccoli, di tutte le consorterie, di tutti i giornali, dei settimanali, delle televisioni, di tutti gli scrittori, gli elzeviristi e i predicatori (ecclesiastici compresi) comunque interessati alla sopravvivenza del “sistema”. Più che un esercito è una gigantesca “corte dei miracoli”: ci sono tutti, nani, giganti, storpi, sciancati, zoppi, ciechi, in carrozzella o barellati (…). La sconfitta significherebbe il crollo della sterminata bottega in cui i “partitanti” succhiano il sangue dei loro connazionali. A vederli ora riuniti e incolonnati, si ha un’idea di quanto numerosa sia la legione di parassiti che, un po’ alla volta, sono riusciti a infiltrarsi in ogni angolo del Paese. C’è da restare sbigottiti. Come proiettili essi usano tutte le banalità e tutti i luoghi comuni inventati negli ultimi anni, compresi quelli più arrugginiti e ormai vuoti di significato. (…) L’accusa scagliata con più furore – o meglio strumentalizzata e sfruttata con maggiore spregiudicatezza – è quella di attentare mediante il modello federalista all’“unità nazionale”. (…)
Proprio mentre nella cultura occidentale va in crisi il modello dello Stato unitario, in Italia si tenta di conservare il privilegio partitocratrico occultandolo sotto la maschera del salvataggio “della Patria e dell’ordine » .
(da L’Indipendente)
LE UNITÀ TERRITORIALI
(…) Tutte le unità territoriali (..) non sono mai compatte e stabili al cento per cento, come se fossero disegnate e ritagliate a tavolino. (…) Quello che conta è individuare delle aree in cui gli abitanti sentano coloro che stanno al di fuori come estranei: la conflittualità amicus-hostis. E questo storicamente per la Padania si verifica: le città padane costituiscono un unicum, senza alcun dubbio. Solo la
disinformazione e il disinteresse hanno portato i cittadini comuni a ignorarne l’esistenza, oppure a non capire l’unità della cultura alpina, che collega la Padania alla Baviera e alle regioni elvetiche”. “Io credo che il fattore economico sia soltanto uno degli elementi che
determinano l’identità di una convivenza umana e che la spingano a pretendere l’autonomia (…). Ma tu ti sbagli quando neghi le basi dell’unità politica dell’area padana. Questa è stata nei secoli una terra di comuni ed altissime esperienze istituzionali. È la storia delle istituzioni (così come la conoscono gli specialisti di tutto il mondo scientifico) a stabilire che le genti padane sono diverse dagli altri popoli italici, e sono invece relativamente omogenee fra di loro. Certo, quando tocchiamo il tasto delle identità, e sopra tutto quello del rapporto fra identità e interessi, ci troviamo su di un terreno fra i più controversi della scienza sociale. Spesso nella politica sono gli interessi stessi a costituire le identità, e non viceversa. (…) Noi stiamo vivendo un periodo storico nel quale le identità vengono ridisegnate costantemente.
La Padania è un caso classico in cui una Comunità identitaria potrebbe essere messa in discussione, ma esistono due percezioni diffuse (ben oltre gli elettori della Lega) che costituiscono un idem sentire padano: la prima è quella di far parte della terra più ricca e laboriosa d’Europa e la seconda è quella di essere gli “schiavi fiscali” di altre popolazioni. Non voglio ora discutere della correttezza di queste percezioni, ma senza dubbio sono molto forti e forse sufficienti a far crescere un senso di appartenenza di tipo identitario. L’identità non è solo etno-linguistica, ma è fatta anche di stili di vita, condizioni socio-economiche, percezioni politiche. Ma ben oltre i fattori socio-economici, che a mio avviso sarebbero già sufficienti a favorire la nascita di un senso di appartenenza (che si modella anche sul senso di “alterità” rispetto ad altre popolazioni della penisola) la Padania vanta maggiore omogeneità dell’Italia.
Intendiamoci, io sono contrarissimo al modello di “Stato nazionale” ottocentesco. Ma se prendiamo i versi di Marzo 1821 di Alessandro Manzoni, una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor e confrontiamo l’Italia con la Padania, è quest’ultima ad essere una nazione e non certo l’Italia. L’unica posizione coerente è quella di chi afferma che le “nazioni” non esistono in natura e quindi né la Padania, né l’Italia.
In sostanza, se la Padania non è una nazione (a dispetto dell’omogeneità linguistica, etnica e culturale dei suoi abitanti), figuriamoci l’Italia, formata da un’accozzaglia di popolazioni che non hanno nulla in comune, neanche la lingua effettivamente parlata (dialetto). Ma per riassumere il rapporto fra identità e interessi, poniamo la questione in questi termini: alla naturale disomogeneità etnica italiana si è ormai aggiunta la distonia di interessi. Se la Padania è una “Comunità fittizia”, l’Italia si fonda ormai solo sull’affettività (…). Per quanto riguarda la Padania, possiamo dire che “cuore e cervello” non vanno nella stessa direzione, mentre diverso è il caso del Meridione: lì gli interessi delle popolazioni sono in massima parte coincidenti con quelli della classe politica romana.
(pg. 166-169, dal resoconto dal dibattito con Augusto Barbera Federalismo e secessione, 1997)
L’EUROPA DELLE CITTÀ
Declineranno, una dopo l’altra, tutte le grandi strutture istituzionali che hanno caratterizzato, nel corso dei secoli, il nostro paesaggio politico. Ad esempio il Parlamento su base nazionale, non solo strutturalmente incapace di produrre decisioni, ma ormai continuamente scavalcato, sulle questioni politicamente ed economicamente più importanti da organismi che agiscono al di fuori della struttura
parlamentare. Con parlamenti e le loro mischie interne verrà meno la classe dei parlamentari, queste figure ottocentesche, un po’ noiose e arroganti, che abbiamo sempre immaginato, obbedendo a una certa oleografia, come i protagonisti assoluti e necessari di ogni politica. I grandi partiti di massa, dal canto loro, sono già un ricordo, sostituiti oramai da aggregazioni di interessi nelle quali non conta più
l’ideologia, ma il carisma dei capi e l’uso scientifico della propaganda. Cambiando i partiti, cambia anche il meccanismo della
rappresentanza. Così come è destinato mutare il significato sin qui attribuito alla Costituzione. La politica ha oggi assunto una dimensione pienamente mondana e secolare: come può dunque concepirsi un atto politico, come appunto la Costituzione, avvolto da un’aura quasi sacrale e religiosa, giudicato intoccabile, un sistema chiuso di norme che una volta posto è destinato a vincolare la vita di tutte le generazioni a venire? In realtà, ogni generazione dovrebbe poter scrivere la propria Costituzione, fissare autonomamente le regole della convivenza politica secondo le proprie esigenze e necessità. (…) Io sostengo il Federalismo come soluzione e via d’uscita al declino irreversibile dello Stato nazionale. Ma se debbo dire qual è il mio vero modello politico di riferimento, il novum che mi piacerebbe vedere realizzato, si tratta di un modello che definisco “anseatico”, che ricalca quello delle città commerciali libere che l’Europa ha conosciuto prima che ovunque nel continente si imponesse la struttura statuale moderna, con i suoi eserciti e la sua burocrazia.
Infatti la più genuina tradizione federalista è stata quella dei secoli XII-XVII, delle città mercantili libere, sopraffatte dall’avvento violento dello Stato moderno. Anche Otto von Gierke non è però andato al fondo della struttura contrattuale anseatica
delle città commerciali libere. In questa fase nelle città non c’erano persone di grande rilievo politico, né parlamenti, ma solo una gestione degli affari quotidiani negoziata continuamente e un Governo frammentato. Il libro che mi piacerebbe scrivere dovrebbe intitolarsi L’Europa degli Stati contro l’Europa delle città. In realtà ci sono dei segnali che lasciano intravedere la possibilità di un’evoluzione nel senso da me auspicato. In Europa oggi esistono grandi aree metropolitane coese (Randstad Holland, a struttura polinucleare, con sei milioni di abitanti fra Amsterdam, Rotterdam, L’Aja e Utrecht, la stessa Padania), grandi centri urbani – Milano, Lione, Parigi, Monaco, Londra, Francoforte – che sono a tutti gli effetti vere e proprie megalopoli (nel senso di Gottmann), aree di riferimento dal punto di vista degli scambi economici, dello sviluppo demografico, dell’innovazione tecnologica e dei rapporti politici. Vere e proprie comunità politiche sempre più quasi-indipendenti de facto, talvolta in stretta relazione (e magari in competizione) le une con le altre e sempre meno in sintonia con i rispettivi Stati nazionali, che vivono anzi come una limitazione.
L’Europa ha già conosciuto qualcosa di simile, all’epoca del Sacro Romano Impero, che era una struttura “internazionale” pluralistica che non produceva sovranità (Pufendorf sbagliava), nella quale le città godevano di una grande indipendenza, pur potendo disporre di un’autorità superiore alla quale rivolgersi per risolvere le proprie controversie. Mi è molto piaciuto, debbo dire, il richiamo del ministro tedesco Fischer alla struttura del Sacro Romano Impero come modello per l’Europa del futuro: un richiamo che non a caso non è stato invece gradito dai custodi del modello dello Stato giacobino e livellatore, Chirac in testa. La realtà è che la storia dello Stato moderno ha diffuso un’idea limitata e parziale delle innumerevoli possibilità di organizzazione della convivenza internazionale. Costituzionalisti, studiosi di Diritto pubblico e giuristi internazionalisti però non se ne rendono conto, se non confusamente, a causa della concezione ossessiva della sovranità nella quale sono cresciuti. Fra cinquant’anni una nuova combinazione di elementi politici e privatistici darà luogo a strutture di tipo neofederale quasi ovunque. (tratto da Ideazione, n. 2, 2001).
Scritti raccolti nello speciale Gianfranco
Miglio: un uomo libero, Quaderni Padani
n.37-38, 2001