di SIAMO VENETO – Esiste una differenza sostanziale tra l’evasione fiscale e l’obiezione fiscale. La prima è l’occultamento di reddito imponibile al fine di non pagare le tasse, sperando di non essere scoperti; la seconda è la decisione di non pagare le tasse autodenunciandosi per protesta contro lo stato. Nel primo caso si vuole ottenere un mero vantaggio economico personale, nel secondo ci si pone un obiettivo politico. La differenza è notevole anche dal punto di vista morale. Nel primo caso si persegue un vantaggio individuale, a scapito della società, nel secondo caso viceversa, ci si autodenuncia rimettendoci deliberatamente del proprio a vantaggio di quella che si ritiene essere la propria vera comunità.
I due casi di obiezione fiscale più famosi sono quello delle colonie americane contro la madrepatria inglese e quello della rivoluzione non violenta di Ghandi sempre contro l’impero Inglese. Entrambe le rivolte ebbero un successo straordinario. In effetti, Ghandi scrisse che: “Rifiutarsi di pagare le tasse è uno dei modi più rapidi per sconfiggere un governo”. La cosa da sottolineare è che questi scioperi fiscali furono del tutto simbolici, ma provocarono un grande impatto sull’opinione pubblica. Furono la miccia che fece maturare la consapevolezza nei rispettivi popoli di essere tali e di aver diritto all’indipendenza. Ghandi organizzo la celebre Marcia del Sale nel 1930.
Il sale, in India, era monopolio di Stato ed era un ingrediente essenziale per tutti gli indiani. La tassa sul sale garantiva agli inglesi circa l’8% di tutte le entrate dall’India. Mahatma Gandhi scelse proprio questa tassa per lanciare la protesta fiscale contro Londra. La protesta prevedeva una marcia di 390 km nello stato del Gujarat a cui parteciparono circa 50000 indiani i quali erano decisi a prendere un pugno di sale a testa nelle saline di Dandi. La polizia li colpiva con i manganelli, ma loro non reagivano e quello non colpiti avanzavano. Fu una protesta memorabile, un esempio di coraggio non-violento ricordato ancora nei libri di storia. In realtà, il danno economico per Londra fu minimo, ma l’opinione pubblica ne fu impressionata. Come disse Gandhi, in quell’occasione, mostrando pochi grammi di sale raccolti: «Con questi ho scosso le fondamenta dell’Impero». Si può aggiungere che con tale prova di pochi coraggiosi, gli indiani tutti presero consapevolezza del loro essere popolo e della forza che un popolo unito può avere; capirono che nemmeno il potente impero inglese poteva opporsi se avessero dimostrato fermezza e volontà condivisa, compresero che con lo spirito giusto anche i sogni più ambizioni possono trasformarsi in realtà. L’”Essere indiano” si incamminò così su una nuova via. E l’India raggiunse la sua indipendenza.
L’altra celebre rivolta fiscale fu quella del tè, organizzata dal Boston Tea Party nel 1773. Con il Tea Act del 1773 veniva, di fatto, introdotto un monopolio della Compagnia delle Indie Orientali nell’importazione del tè nelle 13 colonie americane, mantenendo intatta la tassazione sul tè. In questo modo il governo britannico continuava a violare il principio del “no taxation without representation”. La protesta americana arrivò fino al famoso “abbordaggio” del mercantile Dartmouth, nel porto di Boston, da parte dei rivoltosi travestiti da pellirosse, che buttarono in mare il carico di tè. Anche in questo caso, la protesta ebbe un enorme impatto sull’opinione pubblica.
Anche in questo caso, l’evento contribuì a far nascere negli americani la consapevolezza che non si trattava più di contrapposizione di meri interessi economici tra inglesi residenti nelle opposte sponde dell’Atlantico, ma che loro, gli ‘americani’, erano qualcosa di diverso dagli altri, gli inglesi. Con questa protesta cominciò a insinuarsi, nei primi, l’idea del loro nuovo essere: l’”Essere Americano”, diverso dall’”Essere Inglese”. Così, iniziò a nascere quel popolo che nel giro di pochi anni avrebbe proclamato la propria indipendenza.
La consapevolezza di essere popolo questo è il risultato più grande della protesta, ed esso basta da solo a giustificarne la messa in pratica: ottenere la consapevolezza del proprio essere e della forza che con tale consapevolezza si raggiunge, questa è la vera missione.
La resistenza fiscale può essere, allora, un’arma molto efficace, al di là del numero degli aderenti, al di là delle somme sottratte al fisco, per il grande significato simbolico che può assumere . Si tratta allora di organizzarla bene. Si tratta di scegliere il modo giusto. In effetti, sia la tassa sul sale in India, sia quella sul tè in America non erano tasse dal grande gettito, ma erano particolarmente invise. Erano simbolo di oppressione e di arroganza del potere costituito. Erano viste come imposizioni intollerabili. Contro le quali fosse sacrosanto protestare. Bersagli ideali per colpire i cuori dei propri concittadini più delle loro menti. Così, la resistenza fiscale di pochi fece maturare la consapevolezza dei molti. Fu un vero e proprio detonatore del malcontento popolare.
Noi abbiamo una pressione fiscale effettiva superiore al 60% alla quale si devono aggiungere bollette e multe che sono altre tasse camuffate. Soprattutto abbiamo un sistema di riscossione barbaro che colpisce con una violenza esagerata anche chi solo per errore o dimenticanza non paga entro i termini stabiliti. Da sottolineare che, invece, lo stato onora i suoi impegni, con i propri fornitori, anche dopo anni. Ci sono molti casi di ditte fallite proprio a causa dei ritardi dello stato nei pagamenti. Ci sono addirittura soggetti che non pagano le tasse a causa dei ritardi dello stato e su quelle tasse ‘evase’ sono costretti a pagare multe salatissime, con meccanismi che dupplicano, in poco tempo, l’importo dovuto. Se non è un esempio di arroganza questo… bisogna aggiungere che alla ingiustificabile pressione fiscale, corrisponde una qualità dei servizi inaccettabile.
Ciò significa che l’apparato amministrativo è del tutto inadeguato. Le tasse si pagano per ricevere in cambio servizi, non per un atto di sottomissione al sovrano. Lo stato non è un’entità superiore da onorare, ma uno strumento al servizio dei cittadini. Se esso non mantiene gli impegni, i cittadini devono avere delle armi di rivalsa. Allora, contro uno stato inadempiente diventa legittima l’obiezione fiscale. Io non pago servizi che non ho ricevuto, come non pago per prestazioni pattuite ma non erogate. Io, a un certo punto, decido di ridurre i miei impegni nei confronti di uno stato che non onora i suoi. Il contratto sociale è sinalagmatico e produce un nesso di reciprocità tra le due parti. Stato e cittadini sono controparti che stanno sullo stesso livello. L’inadempienza di una delle due parti, consente anche all’altra di non adempiere. Di conseguenza, i motivi per fare obiezione fiscale in Italia non mancano di sicuro. Ancora, nel momento in cui l’apparato amministrativo deputato a erogare servizi non li eroga, una comunità avrà il diritto di costituirne uno nuovo di proprio, che provveda laddove è inadempiente quella esistente? O si è soggetti all’autorità costituita a prescindere, come atto di sottomissione che si trasmette di generazione in generazione ereditariamente?
In conclusione, può essere la via ghandiana anche la via veneta? Se questo servisse a scuotere i cuori dei veneti, a rianimarli, a far nascere in loro lo stesso orgoglio, la stessa determinazione, lo stesso senso di appartenenze e di condivisione, la stessa consapevolezza che è nata nei cuori degli indiani o degli americani, se questo servisse a rinvigorire l’”Essere Veneto”, allora questo basterebbe non solo a giustificare la protesta ma a renderla addirittura necessaria. Del resto, le premesse sono del tutto simili, visto l’atteggiamento arrogante, persecutorio quando lo stato fa l’esattore, nel mentre esso è del tutto inadempiente quando si tratta di onorare i propri impegni. Date le premesse, si tratta di essere altrettanto efficaci di Ghandi, nel concepire il percorso che porti agli stessi risultati. Ma questo è una questione che deve essere trattata nelle sedi opportune…
Per votare: http://www.siamoveneto.eu/obiezione-fiscale-veneto/