di GILBERTO ONETO – Autonomia e indipendenza sono degli obiettivi. L’autonomia è basata su uno schema variabile di suddivisione di poteri fra il governo centrale e gli enti territoriali. Essa può andare dalla poca autonomia che – ad esempio – lo Stato italiano concede oggi a Comuni, Province e Regioni, alla più ampia autonomia delle Province e Regioni a Statuto speciale, fino alla grande autonomia che Stati esteri (ad esempio, il Belgio o la Spagna) lasciano a talune Comunità territoriali. Se l’autonomia può essere intesa come una scala graduata su cui una lancetta indica le diverse condizioni di libertà, essa ha ai suoi estremi l’autonomia zero degli Stati super centralizzati e l’autonomia massima dell’indipendenza. Questa rappresenta infatti la posizione di fondo scala sul quadrante dell’autonomia: l’autonomia assoluta. Una comunità è del tutto indipendente quando non riconosce (e non ha) nessuna sovranità superiore o altre sovranità con cui condividere qualche potere. Come ha ribadito lo stesso Maroni, lo Statuto della Lega parla di “indipendenza” e non di “autonomia”: è perciò chiaro che si intenda la più totale autonomia e la cancellazione di ogni legame e sottomissione. L’idea di indipendenza implica perciò con incontestabile chiarezza il distacco dall’Italia.
Si pone a questo punto la questione politica e lessicale degli strumenti da impiegare per raggiungere l’indipendenza.
Si va da una azione graduale di devoluzione (passaggio di porzioni crescenti di potere dallo Stato centrale alle entità territoriali: la lancetta che si muove sul quadrante dell’autonomia) alla separazione più netta. Il tutto può essere acquisito con trattativa politica, con l’esercizio democratico del diritto di autodeterminazione o con una azione di forza. L’operazione può avvenire in virtù di una separazione consensuale, realizzata mediante un voto popolare (Norvegia) o per decisione parlamentare (Slovacchia). In realtà però la separazione avviene quasi sempre su iniziativa della parte che vuole andarsene perché è difficile che uno Stato rinunci a una parte del suo territorio di sua iniziativa. In tutti questi casi, chi vuole l’indipendenza (e la libertà) compie un atto di proclamazione unilaterale che si chiama secessione. Se succede che la manifestazione di volontà si trasformi in violenza non dipende da chi vuole la separazione ma da chi eventualmente cerca di impedirla.
Nel 1991 quattordici Stati si sono staccati (proclamando unilateralmente l’indipendenza, e facendo perciò una secessione) dall’Unione Sovietica senza provocare alcuna azione o reazione violenta. La Cecenia ha tentato la stessa strada trovando invece una reazione durissima. La secessione slovena ha dovuto affrontare una reazione piuttosto blanda, quella croata una resistenza accanita (dovuta però più a problemi di confini che di sovranità), il Kossovo se ne è andato con una proclamazione del suo governo e con il riconoscimento internazionale. Analoga considerazione vale per il grande numero di nuovi Stati nati da liberazioni coloniali. La secessione delle tredici colonie americane dalla Gran Bretagna è avvenuta con una guerra; lo stesso è successo in Algeria, Kenia, Angola e in altre parti. La secessione indiana dall’Impero britannico è stata invece frutto di una azione la cui sostanziale non-violenza è divenuta proverbiale. La maggior parte delle ex colonie è però diventata indipendente in forma quasi totalmente pacifica. Insomma l’idea e la pratica della secessione non significa automaticamente un ricorso alla violenza. Tutto dipende dal grado di autoritarismo e di civiltà dello Stato da cui ci si vuole separare: la Danimarca non ha battuto ciglio per l’Islanda, mentre l’Indonesia ha fatto fuoco e fiamme per tenersi (senza riuscirci) Timor Est.
Associare automaticamente l’idea di secessione a quella di violenza è sbagliato. Nel nostro caso si tratta di una maliziosa equazione che è accreditata dallo Stato italiano per togliere vigore alle legittime aspirazioni all’autodeterminazione. Si evocano i fantasmi delle guerre balcaniche (ma il Montenegro non se ne è andato senza che volasse un ceffone?) e le immagini – magari mediate dalla sottocultura hollywoodiana – della guerra di secessione americana. Attenzione: quella volta si era risposto a un atto legittimo e democratico con una reazione brutale e sanguinaria. I cattivi non erano i secessionisti ma quelli che hanno distrutto mezzo paese per imporre l’unità. Per fortuna non ci sono Grant e Sherman nello sterminato organico di generali di cui dispone il ministro Di Paola. Lo Stato italiano è gradasso e vile. Gradasso nel minacciare sfracelli ma vile di fronte a una presa di posizione ferma e decisa. Ma è anche ladro: e i ladri non rinunciano volentieri alla refurtiva, al pizzo e ai polli da spennare. Se si riferiva alla violenza con cui i ladri difendono il loro territorio, allora Maroni aveva ragione. Ma sarebbe bello che lo specificasse bene.