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Via da Roma? Se non siamo liberi economicamente non siamo liberi di lottare

libertà nuovo

di Chiara Battistoni – Dpef: la sigla vi è certamente nota, è il Documento di programmazione economico finanziaria che individua le direttrici principali per il Paese, su cui si costruisce la finanziaria. Uno strumento non troppo snello per pianificare tempi turbolenti come quelli che viviamo; ogni volta che tentiamo di cristallizzare la realtà costruiamo un modello che interpreta ciò che ci circonda ma che, inevitabilmente, non ha la flessibilità sufficiente per far fronte a cambiamenti sostanziali. Pensate invece che nel mondo dell’organizzazione aziendale sono allo studio modelli di amministrazione che fanno del cambiamento il baluardo su cui articolare strategie e politiche; in questi ultimi cinque anni ci si è resi conto che il mutamento in tempo reale (pressoché impossibile) diventa realistico se tradotto nella capacità di leggere in tempo reale ciò che accade intorno a noi, per reagire prima che il pericolo si manifesti, oppure per cogliere tempestivamente le nuove opportunità emerse.

È ciò che gli analisti definiscono “Governo proattivo” del cambiamento, necessario per reagire con agilità alle novità. Come si può essere proattivi quando il Governo resta saldamente centralizzato, quando la struttura tutta è permeata da un asfissiante statalismo? Il  passaggio chiave, che poi è l’indicazione progettuale, ci ricorda che il Federalismo, a partire da quello fiscale, è l’unica strada percorribile oggi. Se è vero che, come è stato scritto nel Dpef di quest’anno, le difficoltà strutturali del Paese sono il frutto della scarsa dinamica della produttività del settore industriale, dell’insufficiente liberalizzazione nel settore energetico e dei servizi, della dotazione ancora carente di infrastrutture materiali e immateriali; del peso eccessivo del debito pubblico, non si vede come le difficoltà possano essere superate senza un cambiamento profondo del Paese, possibile solo con un lungo, paziente lavoro di ricostruzione culturale, etica e politica del nostro tessuto sociale.

L’impressione  è che i motivi indicati nel Dpef siano in realtà gli effetti tangibili, non le cause. Mancanza di competitività, scarsa propensione all’innovazione, ricambio lento della classe dirigente del Paese sono i sintomi di un’Italia febbricitante che ha bisogno di dare vita nuova alla propria cultura, riscoprendo l’amore profondo per la libertà. Ci siamo dimenticati (cittadini e politici insieme) che il benessere di cui godiamo (oggi meno di ieri) è il frutto della cultura di libertà e rispetto della persona; è un effetto, non è un fine, tanto più evidente quanto più libero è il contesto. Amartya Sen (premio Nobel per l’Economia nel 1998) nel suo saggio Il tenore di vita Tra benessere e libertà (Tascabili Marsilio, 1993) ha approfondito le relazioni tra benessere, libertà, tenore di vita. Vi cito un passaggio che ci offre nuovi spunti di riflessione, ci aiuta a capire, se ancora ne avessimo bisogno, che accanto alla buona prassi di governo abbiamo sempre più bisogno di un quadro strategico (fatto di valori) in cui collocare le scelte e le politiche. Scrive A. Sen a pagg. 103 e 104: «Mentre l’identificazione degli oggetti di valore e la specificazione dello spazio di valutazione coinvolgono norme, la natura delle norme deve dipendere precisamente da ciò che è il fine della valutazione. Valutare il benessere può condurci in una direzione; giudicare i risultati conseguiti nei termini degli obiettivi globali di una persona può condurci in una direzione in qualche modo diversa, poiché una persona può avere obiettivi diversi dal perseguimento del proprio benessere».

Semplificando, l’invito di Sen è la chiarezza sui fini da cui scaturiscono le scelte operative. E ancora (pagg. 106-107): «Il conseguimento del benessere di una persona può essere visto come una valutazione della bontà della sua condizione di esistere (piuttosto che, per così dire, le virtù del suo contributo alla nazione o il suo successo nel conseguire i suoi obiettivi globali). L’esercizio è allora quello di valutare gli elementi costitutivi dell’esistere della persona, visto nella prospettiva del suo benessere personale. I differenti funzionamenti della persona costituiranno questi elementi fondamentali. (…) Se la finalità di valore viene a spostarsi dalla verifica della bontà della condizione di esistere di una persona alla valutazione del suo successo nel perseguimento di tutti gli obiettivi che ella ha motivo di promuovere, allora l’esercizio diventa di valutazione del risultato conseguito tramite l’azione, piuttosto che di benessere conseguito».

La libertà è l’humus su cui si costruire il benessere che a sua volta è il frutto di un mercato libero; ma, come ci ricorda Sen, la libertà si impoverisce se si abbandonano i cittadini a un destino senza capacità e senza scelta. Se decliniamo questi concetti in termini di Federalismo ritroviamo la tesi di Miglio, del Federalismo competitivo che mette in concorrenza i governi locali, massimizzando le opzioni di scelta dei cittadini, attraverso la meritocrazia. Ci ricorda Antonio Martino nel suo libro Semplicemente liberale (Liberilibri, 2004): «L’economia non è un gioco a “somma zero”; non è vero, cioè, che la povertà dei poveri sia dovuta alla ricchezza dei ricchi e che, quindi, per rendere meno poveri i poveri sia necessario rendere meno ricchi i ricchi. È vero, invece, che l’economia è un gioco a “somma positiva”, nel senso che i rapporti commerciali – fra Paesi come fra individui – avvantaggiano, sia pure non in eguale misura, tutti i partecipanti. Ricchezza e povertà sono “malattie contagiose”, che tendono cioè a diffondersi: abbiamo interesse ad avere vicini ricchi, che producano beni meritevoli di essere acquistati e che siano in grado di acquistare i nostri prodotti, con vantaggio reciproco; non conviene invece avere vicini poveri, perché non sono in grado di acquistare i nostri prodotti e non producono nulla che meriti di essere acquistato.

La politica beggar-thy-neighbour, volta cioè a impoverire i Paesi vicini, è non soltanto iniqua, ma anche e soprattutto controproducente per il Paese che la pratica. Quanto vale nei rapporti fra Paesi vale anche, e forse a maggior ragione, nei rapporti fra individui». (pag. 50)

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