Oggi la Lega di Matteo Salvini è nazionale. E’scesa oltre le linee del padanismo classico. Forse anche per questo potrebbe andare d’accordo con Marco Formentini, l’ex sindaco di Milano che criticò quando uscì dal Carroccio, la linea identitaria. Rileggiamolo in una intervista di Stefania Piazzo del luglio 2005 sul settimanale Il Federalismo.
A volte gli uomini portano nel nome il loro destino e Formentini non sfugge ad una sorta di nemesi storica che lo vede attraversare le vicende di Milano dai primi dell’Ottocento sino al Terzo Millennio. Sotto varie forme, naturalmente. Da ragioniere del Regno – in quanto un suo Marco omonimo, pure lui economista, fu protagonista della stesura e del controllo dei primi bilanci pubblici – sino a storico della sua terra. Si occupò della Lombardia, come lui ai tempi della prima legislatura regionale, si dedicò alla scrittura de “Il Ducato di Milano”, e fu milanese attivo nel fondare il sodalizio della Società storica lombarda e nel far parte di quell’Archivio Storico Civico, che aprì i battenti intorno al 1870 nella chiesa sconsacrata di S. Carpoforo per merito di Carlo Tenca e il cui primo nucleo fu guidato da Cesare Cantù (le cui vicende politiche e pubblicistiche si intrecciarono con quelle di Carlo Cattaneo).
Di quel libro sul Ducato, si legge ancora che fu dedicato al conte Giulio Belinzaghi, sindaco di Milano, al quale si riconosce la grande capacità di aver saputo «mantenere la concordia fra due elementi, il popolo ed il patriziato, le cui dissenzioni nei tempi andati furono la radice di tanti danni per Milano». La dedica anticipa la tesi di fondo del libro: non è stata l’avventatezza di Ludovico il Moro, nel chiamare in Italia i Francesi, la ragione vera della perdita dell’indipendenza, ma le discordie tra le due anime della città, il popolo e il patriziato.
Marco Formentini, era del Terzo Millennio, già sindaco di Milano sotto il vessillo del Carroccio, eletto dal popolo e dal patriziato della Milano bene di allora, ha partecipato ad un altro Risorgimento nei primi anni Novanta, quello della Milano capitale morale del rinnovamento che espropriò socialisti e democristiani dai luoghi del potere.
Poi, la virata politica: oplà, dal movimentismo al partitismo. Prima eurodeputato della Margherita, nel centrosinistra che sentiva a lui più congeniale, poi coordinatore lombardo dei Circoli della Margherita. Amato prima, odiato poi dal popolo leghista per la sua “fuoriuscita”, come il suo omonimo che aveva scritto “Sull’organizzazione politica e amministrativa del Regno d’Italia”, ha preferito alla causa padana quella nazionale. Ma resta pur sempre testimone di quegli anni che, così leggiamo sui giornali, vedono tornare protagonisti mediatici gli eredi della Milano che si era bevuta tutto.
Formentini, leggiamo sui giornali che dagli anni ’92-’93 ad oggi in realtà il Paese non sarebbe cambiato. Condivide?
«L’esperienza, la spinta di quegli anni è stata superata. Noi siamo in piena restaurazione, tornano a galla la vecchia Dc e il vecchio Psi, equamente distribuiti purtroppo tra centrodestra e centrosinistra. Ed è un dato di fatto che il bipolarismo non abbia saputo prevedere questa realtà. Forse è colpa di quel 25% di quota proporzionale, forse di altro… chissà. Ma il punto è che la grande ventata di cambiamento politicamente capeggiata dalla Lega Nord è andata dispersa. E nonostante la magistratura abbia fatto implodere un sistema che era arrivato a fine corsa, ora si torna indietro».
Lei butta via quell’esperienza?
«Non dico questo. Anche perché è storia del Paese. L’accelerazione, a dirla tutta, partì nel maggio ’90, in quelle amministrative che videro stravincere la Lega Lombarda. Ma quel processo riformatore si è fermato….».
E chi ha fermato il processo riformatore?
«Una parte di colpa ce l’ha questo Paese vischioso, che è figlio di una realtà: e cioè che questa Italia non sia mai stata fatta compiutamente. A ciò si aggiunga che in un tessuto sociale debolissimo prevalgono i poteri organizzati per succhiar soldi allo Stato, a partire dalla grande industria che non ha reinvestito i profitti alla mentalità assistita dal Lazio in giù!».
Parla ancora da leghista, Formentini!
«Direi che critico la Lega! Perché a mio avviso ha commesso l’errore strategico di non rendere nazionale la sua battaglia. Poteva concentrarsi sulle rivendicazioni della sola Padania, ma serviva il consenso di tutta la popolazione… oppure bisognava aprire e approfondire il discorso di Lega Italia Federale».
Ma il passaggio ci fu! Anche il settimanale del Carroccio assunse come sottotitolo quella dicitura…
«Nell’aprile del ’93, prima della mia candidatura a sindaco di Milano, proposi a Umberto di spingere su questa linea, che avrebbe colmato un vuoto assoluto nel resto del Paese. La Lega era la vera unica forza politica in crescita in grado di catalizzare consensi… ma poi quel progetto di arenò, ci fu la resistenza dei veneti… insomma, non se ne fece più nulla. E fu un errore perché poi arrivò il Cavaliere a occupare quegli spazi lasciati liberi. Lì credo iniziarono due cose: la fine di un sogno e la restaurazione».
Sta puntando l’indice su Forza Italia?
«Dico che attraverso questa strada molti politici della Prima Repubblica hanno riciclato se stessi».
È accaduto un po’ ovunque, non crede?
«Beh, come le dicevo prima, il fenomeno è ben distribuito. Ed ha approfittato di una società debole, e delle occasioni mancate dopo quel passaggio di rinnovamento negli anni Novanta. La Lega non ha approfittato delle favorevoli congiunture e ora siamo qui a fare il bilancio di una storia che sembra farci tornare indietro».
Sarà, però le uniche riforme sostanziali del governo Berlusconi portano la firma di uomini della Lega.
«Capisco, però chi ha il pallino in mano? Anche se oggi, paradossalmente, Berlusconi senza la Lega non è vincente.
E deve per di più fronteggiare al proprio interno l’effetto restaurazione portato dagli alleati che prima ha inglobato e che ora gli si ribellano chiedendo il timone! In altre parole, senza la Lega, Berlusconi non porterebbe in salvo quel poco di cambiamento che è stato
messo in corso. Il resto del quadro vede Alleanza nazionale che deve tutta la propria legittimazione a questa alleanza anche se i suoi colonnelli si chiedono se e quanto paghi l’obbedienza al premier piuttosto che i giochetti dei centristi…».
La salute del centrosinistra è forse migliore!?
«Senz’altro registriamo anche noi elementi di instabilità: la spinta neocentrista, al moderatismo, è evidente anche se a mio avviso Prodi ha saputo guidare il processo, rinunciando persino alla lista unitaria. Il che significa ridare forza ai partiti».
E l’amico Bertinotti?
«È tutto un altro discorso, fatto di alleanze. E quindi molto più solido. In ogni caso la salute del centrosinistra sarà misurata attraverso le primarie: sappiamo che sono un vaso di Pandora ma ci si auspica che ne esca una forte partecipazione popolare e il rafforzamento della leadership di Prodi. Il che significherebbe una guida a tenuta sicura per i prossimi cinque anni».
Quindi lei scommette sulla vittoria del centrosinistra alle politiche del 2006?
«In questo momento non vedo come il centrodestra possa recuperare. È difficile che un governo, davanti al costo della vita che cresce, alla diminuzione del benessere, superi la prova delle urne».
Formentini, la domanda è d’obbligo: lei si sente tradito o traditore rispetto alla Lega?
«Non ho ragione di attaccare la Lega, c’è stata alla base della mia uscita una divergenza di scelte. Io sono rimasto al “nemico” di Arcore, a Roma Polo – Roma Ulivo contro il Nord. Capisco che altre scelte di strategia politica hanno portato poi all’alleanza ma personalmente non ho condiviso la scelta. Questa è la ragione vera».