di ROMANO BRACALINI – Lo spirito plebeo romano, so-pravvissuto alla coltre dei secoli e ai lapilli soffocanti della storia, s’è sempre di-stinto per certo disinvolto cinismo, anoressia del deco-ro e ilare incredulità, nella città che abusivamente si ammanta di desti-no e di sacralità; anche le canzoni del repertorio più popolare inneg-giano alla dissipazione d’ogni sen-timento di serietà di fronte alla fatuità del vivere: «Ma che te frega, ma che t’emporta», suona un verso celebre cantato nelle osterie e nelle sagre di Marino. Nel costume ro-mano spiccano la vigna, i carri fioriti, i canti o le maledizioni, ma non vi si troverà dai tempi Cornelia
madre dei Gracchi un gesto indivi-duale di virilità o di decoro. Lo stesso dialetto romanesco riduce tutto in beffa e in derisione, e dal tono come lo si pronuncia parrebbe negato all’eroismo e al gesto di sacrificio. Il romano lo si indovina
piuttosto stravaccato su un’amaca.
Lo stesso 8 settembre, spicciola catarsi all’italiana, ma deciso di notte e di contrabbando, dove poteva essere annunciato se non tra le rovine materiali e morali di Roma. Nel 1944 gli americani entrarono in Roma da ex nemici ma
l’accoglienza dei romani li convinse che erano sempre stati considerati amici e alleati. Un giovane soldato americano su un un carro armato disse al compagno: «Ma non erano quei figli di puttana che ci sparavano addosso?». La storia poteva avere un senso a Parigi o Berlino. Ma non a Roma, che ha sempre acclamato i vincito-ri qualunque fossero: da Belisario al generale Clark. Si ammette che l’attore Alberto Sordi abbia rappresentato al me-glio della sua arte non solo lo spirito deteriore del popolo romano, ma anche le ricorrenti e consolidate viltà, ipocrisie, piaggerie di suddito, aduso a tutti gli inganni e tradimenti, dell’italiano medio d’ogni epoca.
L’esibizione corale e pubblica rientra nella natura rumorosa e plateale del romano, la commedia dell’arte trova qui il suo naturale e istintivo nutrimento. Del resto il senso dello spettacolo, insito in un popolo fantasioso e proclive alla scena e alla farsa, dove poteva esercitarsi se non in una città multiforme, ruffiana, e piena di risorse come Roma?
Pane e circo, dicevano gli antichi e non avrebbero mai potuto dirlo a Bergamo o nelle pianure laboriose della Bassa. Dopo i giochi del Colosseo, che hanno fatto la fortuna del cinema americano, il cinema autarchico di Cinecittà voluto dal
Duce romagnolo fattosi romano è stato la sola opportunità di lavoro che i romani hanno colto senza sentirsene stanchi al solo pensiero. Roma è la sola capitale europea (con qualche dubbio) che non abbia società moderna e grande industria, ma solo “generone” arricchitosi con la speculazione edilizia, moda e cinematografari, tutti generi di apparenza e di poco sudore. Il fascismo ne fece la capitale della politica, della burocrazia e, appunto, dello spettacolo.
Il cinema servì al regime per farsi propaganda. Un’abitudine che non è mai ve-nuta meno anche quando il regime cadde e l’Italia rimase la stessa. Anche Roma è sempre la stessa nell’umore e nei vizi, tornasse Nerone non la
troverebbe cambiata d’una virgola. Dovremmo tenere d’occhio l’estintore. Roma è immortale, su questo sono d’accordo con Nerone. Dai padroni fascisti, Cinecittà passò al servizio dei nuovi tenutari della repub-blica. Il cinema continuava a parlare romanesco, lo Stato continuava a finanziarlo perché lo scopo non era quello di fare “cassetta”, come si dice in gergo, di “guadanbià’” (guadagnare) ma di far comodo al nuovo padrone.
Il cinema serve egregiamente alla politi-ca. Non è un mestiere ma una convenien-za. La giovane Melandri, che dicesi co-munista, dove potevano impiegarla se non al ministero dei Beni culturali a dispensar soldi pubblici ai compagni re-gisti; e chi se ne frega se i film che fanno non raccattano nemmeno il malloppo che è stato speso. Roma è lontana da ogni concetto di economia moderna. Se è difficile concepire un cinema libero, critico col potere e non vassallo, tanto meno si
riesce a immaginare che esso possa vale-re per quel che è: un prodotto dignitoso frutto del talento e dell’immaginazione che non tollerano costrizioni o censure.
Nanni Moretti, non fosse romano, avrebbe potuto scegliere tra una gamma di mestieri utili. Essendo fatalmente romano è come se fosse nato su una poltrona di platea o in camerino. Ha al suo attivo, come si dice, una serie di film di genere romano essendo i suoi eroi e se stesso incapaci di immaginare uno sce-nario più ampio e diverso. Nella trama dei suoi film più che l’impegno politico, c’è l’irridente scetticismo dello spirito di Pasquino, che oggi come ieri è il riflesso di secolari sopraffazioni, di cumuli di ribalderie commesse con la complicità del popolo asservito. Nei Paesi dove ha trionfato la tirannide si sviluppano solo le qualità deteriori della sopravvivenza. Dare del “furbo” a qualcuno-furbo come sottoprodotto dell’intelligenza può essere considerato un insulto, salvo a Roma dove il furbo meriterebbe un monumento con il milite igno-to. La furbizia non si coniuga con lo spirito di rinuncia, il rischio e l’indipen-denza di pensiero. La furbizia è esatta-mente il contrario della nobiltà di cuore.
Di solito un uomo libero non è considerato molto “furbo” nell’accezione romana. Un regista, uno scrittore, un intellettuale, è davvero libero se fa lo sberleffo al potente, prende in giro il potere, non se ne fa complice e manutengolo, ma sareb-be inutile cercare un eroe del pensiero solitario nella città meno eroica del mon-do. Moretti, con le sue “corazzate Poten-kin”, ovvero con le sue “cagate pazzesche” al servizio del partito si conferma suddito romano ubbidiente che di giorno bacia l’anello e di notte affida l’insolenza a Pasquino. La Rai è un altro contenitore di spettacolo romano. Provate a sradicarla dalla capitale. Sarebbero perfino capaci di prendere le armi, incombenza che di solito lasciano agli altri. In Italia, specie in certe parti di essa, dove la libertà non ha mai avuto corso legale, la si svilisce facendo il “caimano” agli ordini di una parte contro un’altra. Essere indipendenti, questo mai. I “bastian contrari” non crescono a Roma. Non è forse un caso che
il primo Parlamento italiano avesse sede nel palazzo del gioco del lotto e non furono pochi i romani assidui della cabala a scommettere sulle sue fortune.
La pretesa universalità di Roma, riconosciuta anche dal grande storico tedesco Ferdinand Gregorovius, si è sempre scontrata col carattere provinciale e di suburra del popolino romano (il diminutivo era un attestato di scarsa qualità) e il cinema, casereccio e sapido come una bruschetta, è sempre stato lo specchio fedele dei suoi vizi ancestrali.
L’orizzonte provinciale dei cinemato-grafari romano – una brutta parola che la categoria si merita – nel nome decli-nato alla romana come il carciofo alla giudìa, si manifesta in tutti i suoi limiti borgatari quando i film italiani d’unaqualche pretesa vengono presentati al festival di Cannes o in altre sedi di prestigio e non ottengono il medesimo successo della pizza. Quando re Vittorio Emanuele II si ap-presta a entrare in Roma dopo il 1870 si diffuse la voce, forse messa in giro dal Vaticano, che nelle acque del Tevere si aggirasse un mostro, forse un grosso rettile, forse un coccodrillo. Se ne dicevano tante a Roma. La storia si dimostrò falsa.
(da Il Federalismo, direttore responsabile Stefania Piazzo)