Roma capitale d’Oriente, copia di Bisanzio

di ROMANO BRACALINI

Un avviso ponderabilissimo e pieno di funesti presagi si ebbe quando il re galantuomo, il Vittorio Emanuele II, più dedito alle contadinelle che agli affari di stato, entrò a Roma dopo che i bersaglieri ne avevano sfondato le mura a Porta Pia. Era l’ottobre 1870 e il Tevere aveva dato di fuori e la città allagata, come quando fuori piove, ricevette il re con gli abiti fradici e il fango che inzaccherava le strade. Elegante non lo è mai stata, ma dopo l’ennesima alluvione, – perché nessuno aveva pensato a costruire i parapetti del fiume limaccioso e giallo -, aveva l’aspetto di un accampamento fenicio e le donne già sfatte alle finestre con i bigodini a guardare il mesto corteo reale che arrancava. Toccata e fuga. Il re aveva notato che Roma puzzava di erbe cotte e fossero state solo le erbe! Fortuna che non c’era ancora la metropolitana che in questi giorni è chiusa per la piena.

Che Roma assomigliasse a Bisanzio e che non vi fosse tradizione di lavoro metodico ma solo quella della gabola l’avevano già detto in tanti,a cominciare da Massimo D’Azeglio secondo il quale non solo Roma era inadatta a far da capitale a uno stato che avesse la minima intenzioni di diventare civile e rispettato, ma l’intera Italia peninsulare da Roma in giù andava dimenticata. Anche il Manzoni, benché patriota unitario, diceva che era meglio Firenze, anche “per la lingua”. Roma apparteneva a un altro meridiano e quando piove lo si capisce meglio.Verdone, l’attore romanesco ha avuto un momento di sconforto: ”Roma mia, sei come Kabul!”, ha esclamato. Ma la sporcizia adorna le strade anche col sole. Roma non funziona perché vi è una filosofia di vita infingarda, scettica, indifferente, un abito di cinismo immorale. ”A Fra’ che te serve”, è un’affettazione greve e compiaciuta di potere e d’importanza. ”Otium cum dignitate”, dice Cicerone. Ozio con dignità, se può esserci dignità nell’ozio. Ma a Roma il metro è diverso. Capitale in bilico tra l’Europa e il Medio Oriente, diceva il sindaco Argan che si mostrava eccessivamente ottimista. ”Un suk, una bazar orientale: balenano pugnali ovunque, dietro le tende piene di dolciumi”. A Roma c’è un che di dolciastro, come d’oriente giulebboso e inerte; greve la cucina di piatti di pastori dell’Agro malarico. Roma era una tomba imbiancata, non una capitale d’elezione come Parigi o Londra; non una capitale d’invenzione come Washington, Brasilia o Berna.

Vai a Roma e ti senti la città addosso con tutti i suoi sarcasmi plebei, il verbo popolaresco predomina nel vocabolario greve d’insulti.La coda alla vaccinara non avrebbe mai potuta comparire sulla tavola sontuosa dei re capetingi.”Li mortacci tua” mi pare privo di qualunque pietà. Alligna nella città rimasta un insieme di borghi malsani un carattere di volgarità e di arroganza. ”Io so’ io e voi non siete un cazzo” era la regola di vita della Roma papalina. La città è in perenne ritardo come di città che non premia il dovere. Roma ha solo due linee della metropolitana già scassatissime e sporche e le ha avuto in ritardo, quando Parigi e Londra avevano la metropolitana già da un secolo. I servizi pubblici non funzionano perché non si vede l’interesse a farli funzionare. Il Campidoglio, che è la sede del comune romano, rigurgita di parassiti e di clienti che già fanno fatica a recarsi al lavoro. Fuori troneggia la statua di Marco Aurelio che non si sa cosa rappresenti. Vanno tutti macchina, il braccio fuori del finestrino a mandare a quel paese l’automobilista rivale. Il fascismo, cialtrone e plebeo, rilanciò il mito di Roma con la retorica dell’impero ma si dimenticò di riformare i romani che sono la brutta copia degli italiani peggiori.

Nel 1988 fu lo storico torinese Luigi Firpo ad attaccare Roma, costernato dal fatto che “questa città levantina” fosse la capitale di un Paese moderno, la “sesta potenza industriale del mondo”, ma siamo già scaduti di livello, scivolando verso i balcani e Roma ci rappresenta già meglio. L’occasione era stata la richiesta di un finanziamento per il risanamento dei monumenti della capitale.”Neanche una lira per questa città e per questa gente”, diceva Firpo fuori dai gangheri. ”Roma è un pozzo senza fondo e senza speranza, un agglomerato informe,violento e godereccio, sfaticato e ingovernabile”. Allo sfogo di Firpo si aggiunsero i ragionamenti di Alberto Moravia, romano de Roma, che dava ragione a Firpo.”Roma non è una capitale degna di questo nome, come Parigi o Londra, ma una spugna burocratica che tutto assorbe e nulla dà”. Sede di uno stato, proseguiva Moravia, ”che non è uno stato, capitale di una nazione che non è una nazione, espressione purtroppo perfetta del fallimento dell’unità d’Italia”.

Nota personale. Porto il nome di mio nonno paterno il cui padre garibaldino combatté per Roma. Non è colpa mia. Roma è la capitale che ci meritiamo.

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