Ripartiamo dai Comuni con il neofederalismo

 

parassiti

di ENZO TRENTIN – Se la corruzione in Italia si annida nelle grisaglie del parassitismo pubblico, specie di quello locale, e si può valutare in 200 miliardi di euro l’anno di sprechi, clientelismi e ruberie [http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/12/14/regioni-indagini-in-tre-su-quattro-e-la-meta-dei-consiglieri-e-indagata/813519/ ], allora, forse, un ritorno al passato, alla civiltà comunale rivista in chiave neofederale come Gianfranco Miglio l’aveva prefigurata, potrebbe essere la soluzione.

 

Canagliescamente in nome dei costi della politica si è fatto carico ai piccoli Comuni della maggior spesa pubblica. Il numero dei Comuni italiani è passato da 8.046 a 7.999 e dal 1° luglio 2016, con l’aggregazione di Ivano Fracena nel comune di Castel Ivano, è sceso a 7.998.

Il 70% di questi Enti ha meno di 5.000 abitanti.

 

Di contro, alle Regioni, agli Enti inutili, agli sprechi di ogni specie, solo qualche sporadico taglio e tanta indignazione della durata di un giorno. E per rafforzare la distruzione di tanta parte della nostra storia – i Comuni hanno circa dieci secoli alle spalle, contro i 155 anni dello Stato italiano e solo 45 anni delle Regioni – si è caricata una retorica farlocca contro i Comuni “polvere”.

 

Approfittando delle difficoltà economiche e della conseguente minor resa in termini di servizi, è stato gioco facile far pagare “culturalmente” e quindi legislativamente alle parti più deboli dell’impianto istituzionale. E i Sindaci, l’ultimo anello della politica, presi da avvilimento stanno cedendo a questa insensata demolizione. Ma sono proprio le micro-comunità la causa di tutti i mali d’Italia? Da una diagnosi (intenzionalmente) ingannevole, si ricorre a una cura peggiore del male: cancellare i piccoli Comuni. E per tale scopo non si lesina di ricorrere a ogni mezzo, dai premi ai ricatti, dalle promesse alle imposizioni.

 

La civiltà comunale, dal punto di vista politico, nasce nel momento in cui avviene la nomina dei consoli (intorno all’anno 1000), che garantiscono una certa stabilità, solo allora si può parlare di Comune. Nell’analisi della formazione del Comune occorre anche tenere conto di tre importanti fattori: la crescita demografica per la quale tra il X e il XIV secolo si assistette al raddoppio della popolazione; il grande conflitto tra Papato e Impero, durante il quale la figura del vescovo venne, in qualche modo, ad essere delegittimata; la migrazione dalle campagne verso le città.

 

Queste le cause politiche ed economiche che molto influirono sulla formazione del Comune.

Non vi sono date precise cui ricondurre questa nascita, ma per ogni città la data è strettamente dipendente dal momento in cui il potere episcopale è sostituito dall’autorità comunale. Anche se, come ha affermato qualche storico, in questo senso si può forse parlare dell’avvento del Comune come di una rivoluzione silenziosa, in quanto gli stessi personaggi che precedentemente collaboravano con il vescovo vengono ad amministrare la giustizia come consoli del Comune. Ad un primo allargamento del ceto dirigente, purtroppo, era seguita una contrazione per cui il nucleo del potere ritornò nelle mani delle stesse persone che lo gestivano in precedenza.

 

Le “città-stato rette a repubblica”, cioè le città che cominciano col sancire il proprio “diritto” di autogovernarsi aumentano di numero. In tutte si trova una descrizione particolareggiata del Comune: da come avviene l’educazione dei giovani alla magnificazione della forza delle mura cittadine, dalle virtù dei suoi abitanti alle loro prodezze in guerra. La novità consiste proprio in una città che è consapevole dei suoi diritti e della sua autorità nel momento in cui assume su di sé i diritti pubblici, la responsabilità del possesso e, soprattutto, il potere giurisdizionale.

 

Il senese Mario Ascheri è un libro «Le città-Stato», Ed. Il Mulino – collana “L’identità italiana”. In sintesi ci aiuta per aver ben chiara una veloce panoramica: «il Comune in armi del 1100 era una specie di associazione giurata con pretese pubbliche; poi nel 1200 esso comincia a rafforzare in modo monopolistico taluni suoi poteri sul territorio – come tipicamente, ad esempio, il suo potere fiscale; nel 1300 poi supera definitivamente la sua originaria natura associativa, di coalizione di consorterie e grazie al Signore comincia a farsi territoriale; infine, nel 1400, si trasforma in ‘Stato regionale’ che comincia a ritenersi sovrano – salvo a verificare che a volte ha un potere meno incondizionato che non prima.»

 

Secondo Quentin Skinner dell’università di Cambridge è lì che nasce la prima forma di democrazia moderna, e quindi nasce il pensiero politico occidentale, ossia è da lì che nasce l’Occidente. Senza di ciò niente Rinascimento, niente Riforma protestante, niente Illuminismo, niente Occidente attuale.

 

Il fatto è che nelle libere città-stato del centro-nord d’Italia, esplode l’Umanesimo, la più grande rivoluzione culturale di quel millennio. I Comuni fanno la guerra e sottomettono i feudatari delle campagne, i quali, per quanto formalmente soggetti all’Imperatore, erano quanto di più simile alla mafia rurale si possa immaginare. Allora e per la prima volta nella storia ai nobili, da sempre monopolisti del potere politico, militare e religioso per grazia di Dio, viene tolto ogni diritto e privilegio politico.

 

È in quest’epoca che per la prima volta giuristi delle università comunali coniano locuzioni come “sovranità popolare” (una voluta provocazione lessicale in quanto la sovranità compete al sovrano) e populus sibi princeps (il popolo principe di se stesso) e attribuiscono alla politica, considerata l’arte più nobile dell’uomo (oggi è comunemente definita la più sporca), la seguente definizione: “arte di gestire una società di uomini liberi sottomessi solo alle leggi che essi stessi si danno”. Marsilio da Padova teorizzata che perfino per il Papa avvenga l’elezione popolare. Per questo sarà perseguitato dalla chiesa.

 

Insomma, i cosiddetti Cives prendono coscienza che non c’è arte né scienza senza cultura, non c’è cultura senza ricchezza, e non c’è ricchezza senza democrazia. Quanto più un regime è dispotico, tanto più l’economia serve ai ricchi; quanto più un regime è repubblicano e democratico, tanto più l’economia serve al popolo. Esiste un rapporto diretto di causa-effetto tra i livelli di democrazia adottati e i livelli di prosperità economica e civile di un paese, è una norma che pare non abbia eccezioni, né nella storia, né nell’attualità. È solo così, tanto per fare un esempio, che si può decifrare l’enorme differenza tra l’America del Nord e quella centro-meridionale, altrimenti inspiegabile.

 

Nel medioevo l’appartenenza alla nobiltà era data dal titolo e dalla ricchezza fondata quasi esclusivamente sul possesso della terra (feudo), considerata al tempo la vera ricchezza. Il fondamento economico e il prestigio sociale del nobile non erano determinati, però, solo dal possesso della terra, ma dal fatto che il nobile vantava all’interno del suo feudo dei “diritti di signoria”; poteva cioè: esigere tributi in denaro dagli abitanti del suo feudo, ma era tenuto a doveri di assistenza e di tutela nei loro confronti.

 

La popolazione laica non è nobile. Era il ceto più numeroso e sosteneva per intero l’onere delle tasse. Il popolo era formato da diverse categorie di persone. Al suo interno era molto stratificato: si andava dall’alta borghesia (ricchi banchieri, grandi mercanti, proprietari di terre, di miniere e di manifatture) alla media borghesia (professionisti come medici, giudici, notai, avvocati, ingegneri o mercanti locali) fino ad arrivare agli artigiani come fabbri e falegnami, agli operai, ai minatori, ai contadini, ai lavoratori senza specifico mestiere.

 

In molti liberi Comuni solo due sono le categorie che non possono esercitare il diritto di voto: i nobili, perché possono comprare il voto; i lavoratori senza mestiere specifico, perché il voto lo potrebbero vendere per necessità. In ambedue i casi si tratta di un numero limitato di persone. Prevalgono gli appartenenti alle professioni, alle arti e ai mestieri.

 

Anche all’interno dello stesso Occidente la validità della norma è facilmente riscontrabile: i paesi a democrazia più evoluta, segnatamente quelli protestanti, hanno realtà sociali, culturali ed economiche superiori a quelli a democrazia carente, segnatamente quelli cattolici o ortodossi che in occasione della crisi attuale sono stati addirittura definiti sprezzantemente PIGS (porci), acronimo di Portogallo, Italia, Grecia e Spagna. Ed è bene rilevare che anche nel nostro stesso Paese la distanza che oggi separa il Settentrione dal Mezzogiorno ha la stessa causa: i differenti livelli di democrazia. E qui il delta ha le sue antiche radici nel fatto che l’esperienza comunale che coinvolse tutta l’area centro-settentrionale non interessò il Sud neanche marginalmente.

 

Ai giorni nostri nell’arcipelago indipendentista, da nord a sud, ci sono un sacco di persone che s’impegnano ad elaborare le più diverse teorie politico-istituzionali, ma forse l’uovo di Colombo si potrebbe scoprire sotto casa, nel proprio Comune, operando anche senza essere eletti nelle istituzioni, ma sollecitando i “rappresentati” con proposte come quella pubblicata qui: http://www.lindipendenzanuova.com/wp-content/uploads/2016/09/Istanza-2-9-16-Comitato.pdf

 

Sarebbero i semi del neofederalismo teorizzato Gianfranco Miglio, ovvero: «Il vero ordinamento federale è contrassegnato da una pluralità di fonti di potere, almeno da due: quella delle entità federate e quella della federazione. Pluralità di sovranità finisce per significare “nessuna sovranità”.» Infatti: «La radice del neofederalismo è l’affermazione di una pluralità di sovranità contro l’idea della sovranità assoluta [ed è] fondata sulla libera volontà di stare insieme. È un nuovo diritto pubblico, fondato sul contratto, sulla pluralità di tutti i rapporti, sull’eliminazione dell’eternità del patto [politico]» (G. Miglio, “Ex uno plures”, in: Limes, 4 -1993).

 

È allora necessario frenare quel genocidio culturale che, in nome della riduzione dei costi della politica, le cosiddette élite partitocratiche stanno facendo carico della maggior spesa pubblica ai piccoli Comuni. È necessario prefigurare un modo per cui non si ripetano le vicende del passato: il nuovo ceto dirigente non può provenire dall’assetto istituzionale precedente. Il nucleo del potere non può ritornare nelle mani della stessa burocrazia che l’ha gestito in precedenza. È un’esperienza che è stata fatta nel medioevo, ma anche più recentemente in Italia, dove alla caduta del fascismo la burocrazia statale rimase al suo posto. Le bastò semplicemente rimpannucciarsi da comunista e pseudo democratica.

 

Lo sviluppo basato sul neofederalismo deriva dalla consapevolezza del venire al pettine di molti nodi del processo storico, soprattutto di quelli dello Stato moderno. È necessario riappropriarsi degli strumenti della sovranità popolare (Iniziativa, Referendum, Difensore civico) per fare in modo che con l’auspicata autodeterminazione non si ripetano le storture del passato. Non avrebbe senso l’indipendenza per continuare ad avere, in un territorio più limitato, le stesse inefficienze dello Stato dal quale si vuole secedere.

 

In sostanza è necessario far propria la lezione di Gianfranco Miglio (“Modernità del federalismo” – Ed. Il Mondo, 1990) «lo Stato unitario è sempre più in crisi perché, in conseguenza della sua staticità e delle sue dimensioni, non è ormai più in grado di appagare, rendendole prima tutte uniformi con la sua autorità, le diverse esigenze di moltitudini di cittadini, le quali esigenze invece si moltiplicano e soprattutto si specificano senza posa e in misura prima sconosciuta.»

 

Il neofederalismo di Miglio è composto di alcuni elementi classici del federalismo moderno

Americano, di fine XVIII secolo; ma anche dalla lezione dei federalisti tedeschi e dalla pratica istituzionale delle repubbliche urbane libere fra Medioevo ed Età moderna, che hanno lottato contro il principato e lo Stato moderno in via di predominio, e dall’esempio delle repubbliche olandese ed elvetica: tutte esperienze opposte rispetto alla vicenda dello Stato moderno unitario accentrato e per questo definite “l’altra metà del cielo” della storia europea.

 

 

 

 

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