di ROMANO BRACALINI – Fatta l’unità, il sentimento nazionale restava fragile, e anzi con tempo si era indebolito, proprio perché il Nord Cisalpino e il Mezzogiorno d’Italia restavano due entità opposte e incompatibili.
Moderati, socialisti e repubblicani settentrionali, benché divisi su molte cose, erano unanimi sul fatto che il Sud anziché avvicinarsi a un modello di vita civile, se ne stava allontanando. Filippo Turati, capo dei socialisti lombardi, vedeva un impedimento nella natura ibrida del latifondista meridionale nel quale “il feudatario non era ancora ben morto e il borghese non era ancora ben vivo”.
Tra la pseudoborghesia e la vera borghesia moderna vi era un antagonismo insanabile di costumi, di cultura, d’indole, di interessi. L’una aveva criteri e metodi rispettosi delle regole, l’altra aveva criteri e metodi di un vero brigantaggio politico.
Nel Mezzogiorno “borghesia, feudalesimo e camorra erano la stessa cosa”; e non era “forse l’analfabetismo che ci regala la corruzione delle classi dirigenti e il governo di Francesco Crispi?”. Gli uomini del Mezzogiorno restavano unitari, fanaticamente unitari e centralisti, sempre alla coda di ogni moto di rinnovamento, perchè nell’unità trovavano il loro tornaconto. Ed è in Lombardia che Filippo Turati e Dario Papa, repubblicano, concepirono uno “Stato di Milano” nel quale i governativi meridionali, videro un pericolo, una rivoluzione, uno sconquasso per lo stato unitario.
”Stato di Milano” che, nella forma vagheggiata da Carlo Cattaneo, voleva dire Lombardia governata dai lombardi; ”Stato di Milano” voleva anche dire Stato di Piemonte, di Venezia, di Toscana, di Roma. ”Stato di Milano” voleva dire amministrazione e finanze di casa; voleva dire giustizia, dove il giudice, l’avvocato, l’incolpato, il cliente si capivano tra loro, con leggi fatte per loro; voleva dire magistrati reclutati in Lombardia; voleva dire scuola lombarda; ”Stato di Milano” significava l’applicazione di regole federali in cui ogni regione, o stato, si dava leggi e regolamenti vicini alla propria sensibilità e al proprio carattere”.
Non voleva dire, come scrissero i giornalisti “stemmati” (sabaudi), mentendo, ”distruzione della patria”. Così quando nel maggio 1898 scoppiarono i moti popolari di Milano al marchese siciliano Di Rudinì, capo del governo, parvero la messa in atto dei propositi secessionisti dei lombardi e diede mano libera al generale Bava Beccaris che non esitò, col favore e l’incoraggiamento della monarchia, a prendere a cannonate il popolo indifeso che chiedeva solo migliori condizioni di vita. Le giornate di Milano e le notizie che giungevano da Napoli acuirono lo scontro tra i due capi della penisola. La commissione parlamentare d’inchiesta affidata al senatore Giuseppe Saredo, ligure, nel novembre 1900 aveva scoperto, senza che ciò rivestisse carattere di eccezione, che parecchi comuni della Campania, compreso quello di Napoli, risultavano collusi con la camorra ed erano stati sciolti d’autorità dal governo. L’inchiesta suscitò un acceso dibattito parlamentare e lasciò dietro di sé uno strascico di risentimenti e di polemiche. Si voleva fare di Napoli una grande città industriale, si dovette ammettere che mancavano le condizioni sociali e morali per un simile programma.
Lo stesso Saredo nelle sue conclusioni parve condividere l’equazione dell’on.Enrico Ferri, socialista lombardo, grande oratore, studioso di criminologia, che nella seduta del 14 dicembre, pronunciò la famosa frase che parve l’insulto più sanguinoso: ”Nell’Italia settentrionale sono oasi di eccezione i centri di criminalità, nell’Italia meridionale sono oasi di eccezione i centri di onestà”.
Successe il finimondo. I deputati meridionali gli gridarono: ”Non è vero.Insolente”. E altri: ”Guascone, buffone”. I più abbandonarono l’aula. L’indomani Ferri chiese di parlare. Il presidente della Camera, Tommaso Villa, dichiarò di non potergli concedere tale diritto se prima non avesse ritirato le parole con le quali aveva atrocemente offeso il Mezzogiorno e l’Assemblea. Ferri disse che l’avrebbe fatto se gli avessero mostrato le prove inoppugnabili che lui aveva torto. Nessuno lo fece e Ferri non si scusò.