di Stefania Piazzo – Quest’Europa è davvero talebana. Essere laici contro la religione della moneta unica è un’impresa. Hai tutti contro. Eppure i danni del fanatismo-fondamentalismo monetario sono evidenti e sembrano essere la dannata eredità di quanto ci ricorda il mito greco di Europa, graziosa fanciulla ma di costumi facili, amante di un toro. Alla fine mise alla luce un mostro. E l’Europa delle cattedrali finanziarie, del tutto è relativo, uguale, priva e privata di unità sui valori e i principi, mostruosa lo è davvero. Arresta le diverse opinioni. Nega le differenze, rinnega le radici.
Una volta nella terra dei liberi Comuni, la libertà anche e soprattutto economica, aveva radici lontane in tutta la cultura europea monastica che offrì le condizioni e le basi del libero commercio, al riparo dagli abusi degli imperi, aperta alle autonomie, al libero scambio, al principio della libertà di spesa vincolato a quello della responsabilità di ogni legge economica. Le scuole di economia che fissavano queste regole d’oro nascevano nei chiostri dell’Europa, non nei palazzi dei Signori, e sancivano, nei primi manuali scritti da uomini col saio, che lo sviluppo fosse eticamente integro, non assistito. Tanto s’incassava, tanto si poteva spendere e investire.
Cos’abbiamo imparato da quella lezione che dichiarava già, quasi mille anni fa, eretico lo Stato assistenziale? Cosa c’insegna la vicenda dell’euro rispetto all’essere responsabili di ogni azzardo economico, al voler spendere in virtù del poter spendere, pena il fallimento? Nell’Europa dei piccoli Stati e delle tante monete, liberista, solidale e non liberticida, non monopolista, ci sono le fondamenta dimenticate e le risposte alla degenerazione del mercato in cui oggi pochi decidono del nostro destino e rinnegano quell’economia nella quale siamo nati, economia di certo più etica rispetto a quella che vediamo rappresentata in quest’Europa in deficit di memoria che si identifica solo in una moneta, nei conti, nei parametri.
La memoria? È una virtù. Perché il passato svela particolari scomodi e ricordarli, quando serve, non è politicamente corretto. Noi, allora, vogliamo essere il più scorretti possibile, ma giornalisticamente corretti nel ricostruire alcuni pezzi della storia dell’euro grazie soprattutto alla memoria storico-economica di quegli anni, l’ex ministro del Bilancio Giancarlo Pagliarini, ai tempi relatore di minoranza a tutti i Documenti del governo che fissarono l’ingresso nell’Unione monetaria. Per cominciare, da quelle carte ben conservate scopriamo che anche Ciampi disse, nelle vesti di ministro del Tesoro, a proposito dell’ingresso nell’euro: meglio aspettare tempi migliori.
Non eravamo maturi per entrare nell’Unione monetaria, la moneta unica poteva aspettare. Altroché se poteva aspettare. Tanto che il 28 giugno 1996, quando il dubbio era “Entriamo o non entriamo?”, nel Documento di programmazione economica-finanziaria per gli anni ’97-’99, gli economisti del centro-sinistra e i “tecnici”, alla luce del debito pubblico, sapientemente e coscientemente scrissero:
«…in particolare non è prevista, oggi per il 1997, una politica specifica diretta alla riduzione del rapporto tra fabbisogno e reddito nazionale al valore del 3% – il valore indicato dai criteri di convergenza richiesti per l’ingresso o l’avvio dell’Unione monetaria il 1.1.1999. Questa scelta implica che il governo abbia rinunciato a presentare l’Italia come candidato all’ingresso nell’Unione monetaria.
Esprime il convincimento che il mutamento del quadro economico non consente, al momento, una accelerazione del processo di avvicinamento ai criteri di convergenza». Siamo a pagina 48 del Dpef. Ciampi al Tesoro e Bilancio, Prodi premier, Visco alle Finanze, rinunciano all’euro.
Chiaro, no? Bisogna aspettare. Abbiamo conti disastrosi, il rapporto deficit Pil, come riporta il governo dell’Ulivo nelle tabelle del Dpef (a pagina 45 del documento ufficiale, leggere per credere), è lontano da quel salvifico 3% di Maastricht. L’Italia registra un 7,4 e un 6,1 nel 1995 e in quel disperante 1996.
Per il 1997 prevedono il 4,5. E aggiungono: «La ferma volontà dell’esecutivo di raggiungere gli obiettivi secondo il calendario previsto dal Consiglio europeo di Madrid lo impegna a verificare in autunno, in relazione all’andamento della congiuntura e dei mercati finanziari, la possibilità di
accelerare i tempi rispetto ai criteri di convergenza». Già. Ma in 100 giorni da quel 28 giugno, nonostante i conti, miracolo italiano, con una “Nota di aggiornamento”, il 3 ottobre 1996 il governo firma la cambiale dell’euro.
Che ci farà così pagare: «Il Governo… ha ritenuto di dover intervenire (pagina 4, per conoscenza, ndr) immediatamente sulle dimensioni della manovra, prevedendo ulteriori interventi tali da produrre effetti di contenimento del fabbisogno dell’ordine di 25.000 miliardi attraverso minori spese e nell’ordine di 12.500 miliardi attraverso maggiori entrate».
La memoria? Una virtù che abbiamo pagato… «Si tratta – rileggiamo per non dimenticare – del cosiddetto “intervento per l’Europa”, stimato in 25.000 miliardi di cui circa 12.500 derivanti da un prelievo straordinario sui redditi». Ci siamo deglutiti l’euro. Senza conti in regola, senza riforme, senza risanamento, senza identità. Un bell’azzardo. Come ricordava il documento “Autonomie regionali e federalismo solidale” della Commissione giustizia e pace della diocesi di Milano, firmato dall’allora arcivescovo Carlo Maria Martini, «…un’Europa degli Stati non solo non basta più, ma anzi, dal punto di vista economico e sociale è un ostacolo».