di Benedetta Baiocchi – Lo sappiamo. E lo sapevamo, lo sappiamo che l’Italia non doveva entrare ma tanto i costi sarebbero ricaduti sui cittadini. L’euro che ha mandato in malora il Paese, che ha schiacciato i salari, dimezzato il potere d’acquisto, che ha tolto sovranità monetaria, è la pietra angolare del suicidio economico che abbiamo subito.
E ora non ci stupiamo nel leggere che siamo in recessione. ma già otto anni fa apprendavamo che l’Italia era non la Grecia, che l’Italia è il “cuore” della questione dell’euro: aumentare la crescita italiana è più importante per il futuro dell’area euro che i problemi della Grecia. Lo affermava il Wall Street Journal, definendo l’Italia “l’elefante nella stanza”, ovvero una verità particolarmente evidente ma che viene minimizzata, mentre Atene è “il canarino nella miniera”. “Se la crisi della Grecia è acuta, allora l’Italia ne ha una forma cronica: è cresciuta pochissimo dal suo ingresso nell’euro”, scriveva il Wsj. Colpa dell’euro o dello Stato centrale?
Dove li ha messi i soldi? Chiediamolo ai governi multicolor che hanno costellato di croci le nostre strade.
Poi il Wall Street faceva una virata magica. Leggete qui. “L’economia dell’Italia è lenta da decenni: negli anni 1980 il Pil medio annuale era del 2,1%, secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale. E’ calato all’1,4% negli anni 1990, allo 0,6% nel primo decennio del nuovo secolo e al -0,5% dal 2010. La produzione resta di circa il 9% al di sotto dei picchi del 2008″, metteva in evidenza il Wall Street Journal. ”Gli sforzi del premier Matteo Renzi di riformare il paese sono vitali. I suoi sforzi per migliorare il mercato del lavoro meritano credito; una delle maggiori barriere alla crescita è stata la cultura che fa sì che le piccole imprese crescano e che i molto tutelati lavoratori esistenti danneggino i giovani che cercano lavoro”.
Ma da allora ad oggi, questi dati sembrano pressochè identici. Stesso male, stessa causa. Stessi partiti. Con orgoglio italiano.