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Quando Giorgio Fossa Confindustria parlavano di Padania. Oggi gli imprenditori del Nord hanno interlocutori politici?

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Basta avere un po’ di memoria e, soprattutto, un buon archivio. E’ così che lindipendenzanuova.com ha “ripescato” dagli scaffali del giornalismo che si faceva un tempo, una bella e ampia intervista a Giorgio Fossa, già presidente di Confindustria. Sulla questione euro, sul ruolo della Padania, espressamente citata nella relazione dell’allora presidente di viale dell’Astronomia, si trattava con meno tabù e ipocrisia di oggi. E allora, rileggiamoci questo spaccato di economia d’annata. Potrebbe servire a chi oggi rottama il vecchio senza conservarne, almeno, la memoria storica. Ma c’è anche un’altra domanda che avanza. Gli imprenditori del Nord oggi hanno interlocutori politici? Magari del Nord?

di Nori Tessari – Anche le monete nascono premature. L’euro lo volevamo, sì, ma non così presto. E poi, se avessimo avuto ancora per un po’ la doppia moneta, ce lo ricordava sempre Pagliarini, il Nord avrebbe avuto la possibilità di entrare al volo, perché già strutturato, mentre il Mezzogiorno del Paese, questa
volta forte della svalutazione competitiva, avrebbe avuto la sua occasione d’oro per diventare grande. Ma grande tanto tanto, al punto che l’ex ministro del Bilancio, quando gli fu affidata la relazione di minoranza a quel Documento di programmazione che, in un primo momento, frenava l’entrata nell’euro, ricordò il Confindustriapensiero di Giorgio Fossa: «Cosa succederebbe se la cosiddetta Padania entrasse in Europa e il resto d’Italia ne restasse fuori potendo fare concorrenza al Nord a colpi di svalutazioni competitive?». Pagina 10 della relazione annuale nel 1996 del giovane Fossa.

La lira avrebbe fatto correre di più l’economia del Sud, e il Nord ne avrebbe sentito gli effetti. Vantaggi e svantaggi, in ogni caso più competitivitàGiorgio Fossa, la pensa ancora così?

«Per una parte dell’Italia sarebbe stato senz’altro così. Il Nord Italia, da sempre il traino economico di questo “benedetto e maledetto” Paese, si sarebbe trovato a fronteggiare, oltre la concorrenza estera, anche quella di casa. Che sarebbe stata però una concorrenza drogata. Preferimmo quindi dire: dentro tutti o fuori tutti».

Col “dentro tutti” la concorrenza però la stiamo subendo comunque. Adesso, col senno di poi, cosa sarebbe stato preferibile? Quanto ha fatto bene quest’euro al Nord e al Sud?
«Leggo il problema in una prospettiva più ampia. Non è più solo una questione Nord-Sud ma Italia e resto d’Europa rispetto allo scenario internazionale. Siamo tutti, chi più chi meno, col fiato corto o sospeso».

D’accordo, è l’effetto globalizzazione. Ma non crede che l’ingresso nell’Unione monetaria sia stato prematuro rispetto ai tempi?
«Sa che le dico? Che una volta entrati, e ormai non stiamo a vedere se a torto o a ragione, il nodo è rimasto quello della competitività, perché il Paese si è seduto! È stato fatto uno strappo dalla lira all’euro, possiamo chiederci all’infinito se buono o cattivo, troppo presto o nei tempi giusti… forse bisognava
pensarci un attimo di più… ma la questione di fondo ora è il dover fare i conti con una caduta di tensione. Da parte del governo e delle imprese non ci si è concentrati sui prodotti a maggior valore aggiunto, sull’high-tech, che può essere un tessuto e non necessariamente il classico microchip…».

Italia ex bella addormentata? 

«Siamo un Paese vecchio in un Continente per di più vecchio e abbiamo la pancia piena. Per quanto il presente europeo e italiano non sia florido, di gente che muore di fame non ne vedo, tuttavia siamo presi da inerte torpore».

Vuol dire che chi ha più fame è più competitivo?
«Guardo i fatti. Nel momento in cui tutto il mondo è diventato più piccolo, chi ha la pancia vuota – leggi Cina, India e parte del SudAmerica – si è messo a correre. Mi preoccupa il fatto che da anni in India ci siano centri high-tech per grandi compagnie mondiali, mentre in Italia stiamo a guardare. Finché si parlava di lavori di bassa manovalanza, di “bassa cucina”, ero solo un problema di costo della mano d’opera. Il vero snodo, la sfida della reale penetrazione sul mercato è invece nel creare conoscenza, sapere e trasmettere questo valore nella produzione. Per di più sono Paesi più “giovani” di noi economicamente, e questo li avvantaggia!».

Lei aveva dichiarato: «Attenzione: un Paese senza laboratori non ha futuro».  Non abbiamo inventato più nulla?
«Nelle relazioni dei miei successori e anche nelle ultime uscite di Montezemolo, non ho trovato niente di diverso rispetto alle cose che andavamo denunciando 10 anni fa. Il Paese si è fermato. È seduto con la pancia piena».

Fossa, siamo però entrati nell’euro senza aver portato a casa una riforma, senza aver affrontato il tema della competitività…
«Sono un europeista convinto ma sarei un incosciente se non affrontassi e riconoscessi tutti i problemi che l’euro ha accentuato. Una banalità: l’obbligo di esporre i prezzi con la doppia valuta. Che fine ha fatto?! Oggi ci siamo abituati al cambio alla pari, con il risultato che facciamo fatica ad arrivare alla fine del mese».

Si parla di euro forte. È d’accordo?
«L’America ha dichiarato una grande guerra sulla valuta col resto del mondo. Vogliamo parlarne? Questa guerra può portare, lo abbiamo visto, risultati favorevoli agli Usa e sfavorevoli all’Europa più di qualsiasi altro conflitto! Quanto aspetta il Continente a presentare il conto? Non possiamo essere solo i buoni alleati nelle missioni di pace e poi venir trattati a pesci in faccia quando si tratta sulla valuta! Serve pari dignità. Non dimentichiamo poi che, all’inizio, un euro valeva poco meno di un dollaro… Adesso questa grande rivalutazione non la reggiamo più, nonostante fossimo abituati alle svalutazioni
competitive. E aggiungo: questo fenomeno non lo regge più nessuno. Non ci sono infatti i fondamentali dell’economia in tutta Europa, a parte forse l’Inghilterra! I migliori vanno a pari. Le pare possibile che una valuta che dovrebbe rispecchiare lo stato di salute di un continente, di un Paese, si sia rivalutata così tanto nel corso degli anni rispetto al dollaro!? Qualcosa nel sistema mondiale di rivalutazione delle monete non funziona…».
Chi ha orecchie per intendere intenda…
Dottor Fossa, quando si parla di competitività si fa appello ai dazi. Lei immagino sia contrario.
«Vede, se è la prima strada… è un conto».

Quindi non dice no…

«Dico che alla lunga non bastano. Serve quello che le dicevo prima: i laboratori, la competitività sul valore aggiunto, sulle idee. Non dimentichiamo il passato: nel nostro piccolo siamo stati anche noi cinesi. Lo siamo stati del dopoguerra per bravura, capacità di inventare situazioni nuove, competere, lavorare ore e ore… Poi ci siamo seduti quando è arrivato il benessere».

Lei la vede una via di uscita?
«Bisogna ritrovare lo spirito che in alcune zone del Nord Italia, e penso al Varesotto, anima ancora l’intrapresa. Dovrebbe tornare a diffondersi come un tempo nel Triveneto e nel resto del Paese. A partire dai palazzi romani».
Se Giorgio Fossa fosse ministro dell’Economia, quale sarebbe il suo primo decreto legge?
«Lei mi dà una scelta sola… ho quindi una sola possibilità di risposta: l’unica realtà che è facilmente dimostrabile quanto sia competitiva è la piccola e media impresa. Siccome è difficile, se non fantasioso, pensare di convincere un imprenditore a fondere la propria impresa con quella di un altro per essere più competitivo, io prevederei dei grandi vantaggi fiscali per andare insieme sui mercati. Procedere divisi, marciare uniti. Tante piccole imprese, come atolli, formerebbero una barriera corallina a difesa del Paese. A tutti piacerebbe avere tante grandi imprese! Ma in Italia la realtà è un’altra: ne abbiamo poche e pochissime che funzionano».
Dottor Fossa, le va di calarsi nei panni del ministro del Lavoro?
«Ah… toccherei subito il carico contributivo. Troppo alto. Vorrebbe dire far spendere meno alle imprese e lasciare più soldi in busta paga al lavoratore. Però capisco che non è facile… a meno che si trovi tutti, governo, parti sociali, non tornino a sedersi…».
Troppi costi, troppo Stato forse?
«Ora ce n’è meno di prima ma si può ancora tagliare quel tanto che è rimasto».

(intervista di Nori Tessari, da Il Federalismo del maggio 2005, direttore responsabile Stefania Piazzo)

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