di ENZO TRENTIN – L’indipendentismo è il fenomeno politico caratterizzato dal rivendicare l’indipendenza di un territorio dalla sovranità di uno Stato; spesso si usa anche il termine separatismo o secessionismo.
Un fenomeno pur analogo ma da ritenere distinto, in quanto meno radicale negli scopi e in genere fondato su considerazioni di diversa natura, è l’autonomismo, che si prefigge come scopo l’ottenimento di maggiori poteri nell’amministrazione di una località che rimane comunque sottoposta alla sovranità dello Stato.
È da notare che i fenomeni di indipendentismo spesso si basano sulla rivendicazione del principio di autodeterminazione dei popoli, così com’è riconosciuto nel diritto internazionale, e fondano la legittimità di tali rivendicazioni sulla storicità di una passata indipendenza del territorio o su una specificità culturale del popolo che lo abita.
Il riconoscimento di un nuovo Stato o Governo è un atto che solamente altri Stati o Governi possono concedere o negare. L’Organizzazione delle Nazioni Unite non ha il potere di compiere tale riconoscimento, non essendo né uno Stato né un Governo.
L’Organizzazione delle Nazioni Unite può ammettere un nuovo Stato tra i propri membri, o accettare le credenziali fornite dai rappresentanti di un nuovo Governo. L’Articolo 4, Paragrafo 1 della Carta delle Nazioni Unite stabilisce infatti che “possono diventare Membri delle Nazioni Unite tutti gli altri Stati amanti della pace che accettino gli obblighi del presente Statuto e che, a giudizio dell’Organizzazione, siano capaci di adempiere tali obblighi e disposti a farlo”. La complessa procedura per l’ammissione è qui: [http://www.unric.org/it/attualita/15440]
Inutili, impropri o non pertinenti sembrano i ricorsi alla Corte Internazionale di Giustizia
[http://www.unric.org/html/italian/onuinbreve/onubreve5.html ] da alcuni indipendentisti ventilati. Conosciuta anche come la Corte Mondiale, è il principale organo giudiziario delle Nazioni Unite. Composta da 15 giudici eletti dall’Assemblea Generale e dal Consiglio di Sicurezza, che votano in maniera separata e simultanea. La Corte delibera sulle controversie fra Stati, basandosi sulla partecipazione volontaria degli Stati interessati. Nel caso in cui uno Stato accetti di partecipare ad un procedimento, esso è tenuto a conformarsi alla decisione della Corte. La Corte fornisce inoltre pareri e consulenze alle Nazioni Unite e alle sue agenzie specializzate. Quindi, riassumendo, solo gli Stati possono ricorrere a questa Corte, e solo quelli che accettino di partecipare alle sue deliberazioni assumono degli oneri conseguenti.
C’è poi la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo [http://www.duitbase.it/ ] che è un organismo internazionale istituito nel 1959 in seno al Consiglio d’Europa. Lo scopo della Corte è di garantire l’effettività e l’efficacia della tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali negli Stati facenti parte del Consiglio d’Europa. Tuttavia l’Art. 20 afferma che la Corte si compone di un numero di giudici pari a quello delle Alte Parti contraenti. Ovvero gli indipendentisti che si sono rivolti a questo organismo si trovati di fronte un giudice dello Stato da cui vogliono secedere, mettendo quanto meno in discussione in giudizio di terzietà.
L’Art. 32 afferma che la competenza della Corte si estende a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli, e tra questi non vi è l’autodeterminazione, e in caso di contestazione sulla competenza della Corte, è la Corte stessa che decide.
Esiste anche la Commissione di diritto internazionale [http://legal.un.org/ilc/ ] che è stata istituita dall’Assemblea Generale dell’ONU, nel 1947, per intraprendere su mandato dell’Assemblea, ai sensi dell’articolo 13 (1) (a), della Carta delle Nazioni Unite l’avvio di studi e fare raccomandazioni allo scopo di …incoraggiare lo sviluppo progressivo del diritto internazionale e la sua codificazione”. Quindi ancora una volta ci si trova di fronte ad un soggetto non deliberativo e non risolutivo.
I casi del Jura svizzero e Québec canadese
Nel 1979 il Jura diventò il ventiseiesimo Cantone della Confederazione Svizzera per mezzo di un referendum.
L’ultimo movimento di protesta del Jura prese vita a seguito della vicenda di Moeckli nel 1947. Georges Moeckli era un politico del Jura, la cui nomina a uno dei ministeri fu bloccata dal Parlamento bernese esclusivamente perché la sua lingua materna era francese [si noti che a nessun veneto è mai stato precluso l’accesso al Parlamento nazionale o regionale. Sotto questo profilo quindi, i primi “nemici” di questa argomentazione sarebbero i cosiddetti “rappresentanti” sedicenti indipendentisti. Ndr]. I separatisti cambiarono allora le loro tattiche e i relativi argomenti. In futuro, si sarebbero impegnati a parlare dell’unità, non dell’intera regione del Jura, ma solo delle più bistrattate aree rinunciando all’idea che la geografia e una storia condivisa costituissero la base della loro identità, abbandonando anche le sottolineature di origine etnica e quelle sulla lingua francese.
In altri termini: i separatisti abbandonarono l’idea di “nazione” basata sulla lingua e sull’origine etnica e/o “Comunità naturale” che è in netto contrasto con l’idea della Svizzera nazione e comunità politica. La paura, espressa pubblicamente, era che il nazionalismo dei separatisti minasse l’idea della Svizzera quale nazione basata non su un’etnia o una lingua comune, ma sulla volontà degli svizzeri di unire nonostante le differenze (“Willensnation Schweiz“). I separatisti, d’altro canto, cercarono sostegno alla loro visione sia in patria che all’estero, alla ricerca-scoperta di una “Europa des patries“.
Nel Québec la situazione era un po’ diversa. Nonostante il Basso Canada fosse più popolato dell’Alto Canada, il francese perdeva la sua ufficialità, e la rappresentanza politica del Upper Canada era uguale a quella del Bas Canada, mettendo i deputati Canadiens in proporzionale minoranza. Il sottosviluppo e l’esclusione economica dei Québécois francesi costituirono un problema fino al 1960, anno in cui iniziò la cosiddetta “Révolution tranquille“.
A questo punto furono varate alcune riforme, la nazionalizzazione della produzione di energia elettrica, la creazione di banche e aziende nazionali, la legge in favore dello statuto della lingua francese, in particolare il diritto di lavorare in francese riconosciuto dalla “Charte de la langue française” (1977). Ciò nonostante per ben due volte i cittadini della provincia furono chiamati ad esprimersi per referendum sull’indipendenza: una prima volta, il 20 maggio del 1980 la richiesta di “associazione sovrana” del Québec al Canada fu nettamente respinta (59,5% No – 40,5% Sì). Nuovamente, al referendum tenutosi il 30 ottobre 1995 il No all’indipendenza ha vinto con un esiguo margine dello 0,8% (50,4% dei voti totali), pari a circa 45.000 voti.
La Corte Suprema Canadese, valutando le rivendicazioni di indipendenza del Québec rispetto al Canada ha poi definito attentamente i limiti di tale principio: di esso sono autorizzati ad avvalersi Ex colonie, popoli soggetti a dominio militare straniero e gruppi sociali cui le autorità nazionali rifiutino un effettivo diritto allo sviluppo politico, economico, sociale e culturale. (Sentenza 385/1996).
Alla luce di tutto ciò ci sembra di poter finire come segue: non «Ci sarà un giudice a Berlino?» (è una battuta teatrale presa da un’opera di Bertold Brecht in cui si narrano le vicende di un povero ma tenace mugnaio che si batte contro un imperatore per via di un torto subito). Ovvero, non c’è un Ente internazionale cui appellarsi, e le cui eventuali deliberazioni favorevoli all’indipendenza sarebbero accettate dallo Stato da cui ci si vuole separare. Nella prassi, si è in ogni caso escluso di assegnare al principio di autodeterminazione effetti retroattivi tali da consentire di rimettere in discussione situazioni territoriali definite a seguito dei più importanti eventi bellici del secolo scorso, poiché metterebbero in discussione la certezza dei confini nazionali, il dovere di sudditanza dei popoli e la stabilità politica degli stati.
Ciò nonostante, ora ci troviamo alla presenza di un’importante conquista di civiltà giuridica: l’autodeterminazione dei popoli da “principio” di politica diventa un “diritto fondamentale” espressamente riconosciuti dalla legge universale (scritta) dei diritti umani. Tuttavia un diritto non è efficace di per sé, ma solo attraverso l’obbligo corrispondente; l’adempimento effettivo di un diritto non viene da chi lo possiede, bensì dagli altri uomini che si riconoscono, nei suoi confronti, obbligati a qualcosa.
La conquista, quindi, è incompleta, poiché abbiamo, sì, il riconoscimento del diritto, la definizione del contenuto dell’autodeterminazione nella sua duplice accezione esterna e interna e il correlato obbligo giuridico degli Stati di rispettare il diritto, ma non c’è (ancora) la definizione del soggetto titolare del diritto, il popolo, e manca l’indicazione delle procedure e dei mezzi di garanzia del diritto. In altre parole, oggi sappiamo, con la certezza della norma scritta, cos’è autodeterminazione dei popoli, ma non sappiamo, con altrettanta certezza giuridica letterale, quali caratteri deve avere la comunità umana che la rivendica e non abbiamo quegli strumenti di garanzia internazionale che, per quanto insufficienti, esistono per i diritti umani individuali.
Il dibattito resta aperto. La questione fondamentale sembra essere il fatto che non ci troviamo di fronte ad un problema “giuridico”, bensì al cospetto di un problema “politico” (da risolvere). Forse la chiave di lettura è tutta qui: l’autodeterminazione è questione di punti di vista. E molto dipenderà dalle esperienze scozzesi e catalane. In ogni caso gli indipendentisti dovrebbero dotarsi di un progetto di assetto istituzionale e giuridico, con il quale prima presentarsi all’elettorato di riferimento per riceverne il necessario consenso, e poi alla più vasta platea degli Stati affinché appoggino la secessione del popolo-territorio in sede internazionale.