Il meglio dell’Indipendendenza
di CARLO LOTTIERI
Di repubblica presidenziale, in Italia, si parla da tempo. Per un lungo periodo si trattò però di un’ipotesi avanzata da realtà un po’ ai margini: come nel caso del “gruppo di Milano” guidato da Gianfranco Miglio, per non parlare dei piani della Loggia P2 di Licio Gelli. Nei primi decenni che hanno fatto seguito alla fine della seconda guerra mondiale, le forze politiche tradizionali hanno però avversato, anche in ragione del retaggio antifascista, ogni progetto di riforma che potesse attribuire molti potere nelle mani di una sola persona. Certo furono presidenzialisti Bettino Craxi e anche Silvio Berlusconi, ma entrambi trovarono dinanzi a sé la netta opposizione dell’asse formato da ex-democristiani ed ex-comunisti.
Il disgregarsi del sistema politico della Seconda Repubblica ha però permesso all’ultima presidenza di occupare spazi nuovi: facendo del Quirinale l’autentico dominus della politica romana. Anche se solo pochi giuristi hanno alzato la propria voce ed espresso perplessità, è chiaro che negli ultimi anni Napolitano ha in larga misura stravolto quella Costituzione che pure, a parole, non ha mai smesso di esaltare. Quasi senza accorgercene, siamo scivolati entro un sistema politico in qualche modo presidenziale. Quel che è peggio, ormai un ampio spettro di forze politiche è decisamente orientato a ripensare in quel senso l’ordinamento costituzionale.
Chi crede nei principi della libertà individuale e dell’autogoverno dovrebbe, però, mettersi di traverso. Quanti hanno a cuore i diritti della persona e la concorrenza tra giurisdizioni, quanti pensano che sia urgente ridimensionare l’oppressione politico-burocratica e restituire piena libertà alle varie aree oggi parte delle Repubblica italiana, devono fare il possibile per avversare questo esito.
Oggi come ieri, il presidenzialismo nasce dalla convinzione che ci sia bisogno di “più Stato” e di “più centralismo”, e che solo dando una piena e diretta investitura a una forte leadership personale sia possibile risolvere i problemi. Non è così, perché al contrario abbiamo bisogno di localizzare il potere e dividere sempre più i destini delle varie aree, chiamando ognuno a prendersi cura fino in fondo del proprio destino: assumendo su di sé oneri ed onori.
Se fosse ancora tra noi, lo stesso professor Miglio tuonerebbe contro ogni ipotesi di un’Italia presidenziale, anche se una trentina d’anni fa fu tra quanti proposero quella soluzione. Negli anni Ottanta egli vide nel presidenzialismo una maniera d’uscire dall’instabilità di governi che duravano solo nove mesi (in media) e che creavano una situazione in cui tutti potevano decidere e nessuno era chiamato a rendere conto di quanto aveva fatto. Ma se poi abbandonò quelle posizioni è perché si rese perfettamente conto che l’unica vera maniera per rimetterci in sesto consisteva nel ritorno a una struttura istituzionale massimamente decentrata: al punto che non ebbe alcun timore di sostenere ipotesi apertamente indipendentiste.
Il cuore della questione è qui. Mentre Miglio si rese conto che era necessario puntare su logiche centrifughe e su soluzioni che valorizzassero le città e le realtà storiche della penisola, oggi un’Italia con il fiato corto prova a tenere in vita salvare un ordine politico fallimentare inventandosi un nuovo centralismo. Per giunta, avere un presidente a capo anche dell’esecutivo, ed eletto direttamente dal corpo elettorale, spingerebbe l’Italia verso esiti peronisti. Il nostro inevitabile destino sarebbe una sorta di “nazionalismo rosso”: un populismo romanocentrico determinato a cancellare di anche quel poco che resta delle vere autonomie locali.
Di fronte alle facili promesse – mille euro al mese per tutti – e ai proclami giacobini di quell’M5S che ha costruito il proprio successo sulla denuncia delle ruberie della Casta (e non sullo svelamento delle questioni strutturali che ci hanno portato al disastro), i vecchi partiti puntano a inventarsi un caudillo alternativo: e possono anche farcela.
Chi voglia prendere una strada deve ovviamente riconoscere che il sistema attuale non è riformabile. Non avrebbe quindi alcun senso una difesa dell’esistente di fronte a chi immagina – non sempre in buona fede – di trasformarci in americani con un semplice “trapianto istituzionale”. Come se tradurre in lingua italiana qualche articolo della costituzione Usa potesse bastare a risolvere i nostri guai.
L’America delle libertà affonda le proprie radici in una forte difesa dei diritti dei singoli e in una vera capacità di autogoverno degli stati federati. Invece che rafforzare il potere dei governanti e riunirlo nelle mani di una sola persona, bisognerebbe allora avanzare progetti istituzionali che indichino un’autentica alternativa e permettano di elaborare quel quadro giuridico a protezione delle libertà dei singoli e delle comunità di cui c’è sempre più bisogno.