Perché vi dobbiamo votare?

elezioni

di ROMANO BRACALINI – Perché votiamo? Qual è lo scopo che ci prefiggiamo deponendo la scheda nell’urna? In una democrazia sostanziale, e non formale come quella italiana, l’esercizio del voto è la forma più esplicita e nobile di
democrazia diretta. Ma anche talune “democrazie” camuffate concedono il voto, pur orientandolo, per acquisire un attesta-to di benemerenza e un diritto di legittimità. Se non che essendo esse false democra-zie il voto non ha alcuna validità, quando non è soggetto a brogli e manipolazioni che lo rendono nullo o inefficace. Tutto ciò avviene nei Paesi in cui la “democrazia” è un simulacro o una tragica finzione, cioè nell’Est ex comunista e nell’Islam medievale. L’Italia non è troppo lontana da quei modelli. Da noi si sono svolte spesso elezioni farsa, non solo durante il periodo fascista. La formula era piuttosto quella del plebiscito, del consenso più ampio decretato per servilismo o paura al regime al potere. All’elettore non era consentita nessuna forma di dissenso pena la galera o la deportazione. Il costume forma le leggi. La nostra cultura politica è ben poco liberale. Reca vistose tracce delle molteplici tirannie.

Il nostro panorama politico è costellato da partiti che traggono origine dal pensiero autoritario, di destra o di sinistra, e più che altrove se ne sente ancora il peso e l’influenza nel modello di Stato che essi continuano a proporre nonostante la cattiva riuscita.
Qui siamo a due diverse concezioni di vita. Non siamo più all’alternativa tra Fascismo e rivoluzione proletaria come nel biennio 1921-22; non siamo più all’alternativa tra Comunismo e democrazia occidentale come nel 1948. Siamo all’alternativa tra statali-smo e libertà in un binomio inconciliabile, perché laddove domina il leviatano statale l’individuo è ridotto in schiavitù.

Nella metafora moderna il leviatano è lo Stato con tutto il suo carico di leggi, regolamenti, oppressioni. Il leviatano era il mostro biblico divoratore di uomini che nel XVII secolo il filosofo inglese Thomas Hobbes assunse come simbolo dell’onnipotenza dello Stato di fronte all’individuo. Egli anticipava nella sua visione apocalittica le tragedie delle moderne tirannie che avrebbero fatto dello Stato il campo d’azione del loro potere esclusivo tramite il partito, moderno principe assoluto. Lo Stato si definisce da solo. È un prontuario di doveri e di imposizioni e il cittadino nulla può contro di esso. Può far meraviglia che la coalizione di centro-sinistra prenda ancora le difese di questa reliquia contro i diritti
individuali del cittadino?
La lotta di classe, assunta come dogma infallibile dal movimento marxista-leninista, cos’era se non ingenuo “populismo” romantico delle origini, il trionfo del popolo sulla borghesia egoista e affamatrice?
Ora la medesima accusa di “populismo” è rivolta alla destra con un capovolgimento di logica. I vecchi comunisti rifatti non frequentano più le officine ma i salotti, non gli operai ma la Confindustria. Dice Saint-Just, quando ancora concepiva
la libertà dell’uomo: «Un popolo è libero quando non può essere oppresso né conquistato, eguale quando è sovrano, giusto quando è regolato da leggi».
Dice Aristotele: «Troppe leggi, pessima repubblica». E infatti in Italia ci sono troppe leggi, e infatti l’Italia è una pessima Repubblica. C’è chi vorrebbe cambiarla e c’è chi vorrebbe mantenerla così com’è. Una volta quelli che non volevano cambia-re nulla erano chiamati “conservatori”; oggi quelli che non vogliono cambiare si chiamano “progressisti”. Sono loro i nuovi “ reazionari ”.
Ci vogliono poche leggi, ammonisce ancora Saint-Just. Dove ne esistono tante, il popolo è schiavo. La schiavitù è l’alienazione della propria volontà. Chi dà al popolo troppe leggi è un tiranno. Il termine “legge” non può sanzionare il dispotismo; il dispotismo è l’esercizio sopra il popolo di una volontà estranea alla sua. In Italia non è improprio parlare di “tirannia” della burocrazia che opprime il cittadino con un complesso di leggi, che non ha eguali in Europa, e un carico
fiscale come nelle monarchie assolute dell’Ancien Règime.

L’oppressione fiscale, come arma di potere e di ricatto, ha dato luogo a un’infinità di sollevazioni popolari e a capovolgimenti di regimi. In uno Stato liberale, ridotto all’essenzialità delle sue funzioni esclusive, le tasse servono a fornire servizi moderni ed efficienti ai cittadini. Non è il caso dell’Italia che ha servizi pubblici degni del Bangladesh perché l’enorme carico fiscale non è destinato al miglioramento dei servizi, ma serve a mantenere la burocrazia, il parastato, l’inefficienza pubblica, il ceto parassitario. La leva fiscale dà poteri enormi ai burocrati di partito che se ne servono per i loro interessi politici e per piazzare gli amici.

La libertà di commercio è un naturale prodotto della libertà civile; un governo saggio lascia all’uomo la sua industria e colpisce la ricchezza, ma senza criminalizzarla. Nella tradizione comunista invece la libertà di commercio è associata a una colpa, a un illecito arricchimento, a un peccato di gola.
Su questo terreno certo Cattolicesimo sociale alla Dossetti, alla La Pira, e Comunismo hanno parecchi lati in comune. Essere padroni delle coscienze è un vecchio vizio antropologico comune a entrambe le dottri-ne. Ben altra visione aveva Don Sturzo, cattolico antifascista e federalista.

da Il Federalismo, direttore responsabile Stefania Piazzo

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