di ANDREA ROGNONI – La dittatura “eurasiatica” di Bruxelles e Strasburgo, la gestione proditoria da parte delle capitali dei falsi Stati (madame della Senna ancora assurdamente centralista, la Rosa di Castiglia ipocritamente disponibile ma malata di sindrome da carri armati e l’Urbe nostalgicamente neorisorgimentale per bloccare il meccanismo devoluzionistico messo in atto dalle forze motrici della libertà) non fanno altro che porre le premesse della rinascita degli antichi sogni di Catalogna, Occitania e Padania. Ma questa volta, contrariamente ai “colpi di testa” del passato, finiti male per vizi di passatismo, felibrismo troppo letterario e marxismo travestito da identitarismo, si prospetta, almeno a livello culturale, una proposta più seria e matura, intimamente legata alla migliore tradizione federalistica.
Cominciamo da lontano, dalla rilettura della storia e dalla reimpostazione di una geografia in grado di decifrare in termini di impulsi incrociati l’assetto della Terra e il ruolo dei popoli. L’Europa può contare su tre penisole, singolari e importanti, quella iberica, quella franca e quella italica. Ma tutte e tre presentano, per una curiosa irregolarità della natura, una zona che potremmo definire disomogenea rispetto al resto dell’entità geofisica alla quale sembrano, a una prima frettolosa occhiata, appartenere. Si tratta sostanzialmente di terre che, essendo fondate su bacini idrografici di lunghi e grandi fiumi (tendenti a formare pianure o semipianure alluvionali e moreniche), sfuggono alla logica orografica delle rispettive penisole, che si fondano invece sul concorso di massicci, tavolati, altopiani o bassopiani tesi a costruire, attraverso fiumi più contorti e paralleli che vanno nella direzione opposta a quella dei “nostri” (in Francia e Spagna verso l’Atlantico anzichè il Mediterraneo, in Italia verso il Tirreno anzichè l’Adriatico), ciascuna una sorta di entità circolare o a ventaglio, comunque orientata all’accoglienza fruttuosa di popolazioni facilmente integrabili l’un l’altro in unità antropiche e linguistiche.
Così la valle del Po, del Rodano e dell’Ebro risultano tre magnifiche e fertili sorelle dall’assetto e dalla direzionalità più continentale che peninsulare e marittima, marcati dalla dipendenza, come massa d’acqua e di vegetazione, da due massicci che costituiscono, assieme ai Carpazi, la spina dorsale dell’intera Europa con le loro vette altissime, cioè le Alpi e i Pirenei. In un certo senso si potrebbe parlare di una Mitteleuropa estesa che di peninsulare ha ben poco (chi se la sentirebbe anche tra i geografi più seri ad esempio
di contestare il fatto che la penisola italiana inizia a Rimini e la Spezia?) e va dai Paesi baschi a sudovest fino alla valle del Danubio a nordest, lungo una fascia che parte dall’Atlantico e arriva al Mar Nero giovandosi delle traiettorie fluviali e delle plaghe pedemontane.
Altrettanta specificità va rilevata per i caratteri del popolamento delle tre Sacre Valli (riassunte dalla costellazione Eridano in cielo) e più in generale della fascia litoranea e prelitoranea che segue l’arco costiero tra Valencia e La Spezia. Già in ambito preistorico si può dire che la generale mitezza del clima abbia ispirato
ai primi abitatori una serie di scelte orientate al raggiungimento precoce di un alto livello di civiltà, come testimoniano il sito di Ter in Catalogna e quello dei Balzi rossi in Costa Azzurra. E l’entroterra, per un raggio di 200 chilometri, ha risentito di questo pionierismo. Così quando si sono insediati i primi gruppi etnologicamente classificabili la fascia ha assunto caratteri più nettamente identificabili rispetto al resto d’Europa. Diversi paletnologi ed etnografi sembrano orientati al riconoscimento di una fondamentale presenza dei liguri, meglio dei protoliguri, in questo tratto del Mediterraneo occidentale, preesistenti
perfino agli iberi e ai celtiberi.
La comune matrice ligure potrebbe costituire, se debitamente indagata fino in fondo attraverso il mutuo soccorso tra linguisti ca, antropologia e archeologia, la prima potente chiave dell’esistenza di una nazionalità decisamente diversa da quella iberica, gallica e italica. Proprio i liguri, sfruttando le prime intuizioni dei loro antenati territoriali di 10.000 anni prima, si sarebbero spinti all’interno delle tre Valli, scoprendone definitivamente per primi la vocazione alla fertilità agricola, anche se vennero valorizzate più le colline che i piani. La stessa Padania (per gli antichi Eridania), al pari di Ebridania e Rodania, venne occupata dai liguri, come testimoniano numerosi toponimi di Piemonte, Lombardia ed Emilia. Diversi studiosi ritengono i Camuni, padri della Lombardia e già evoluti sul piano artistico, di origine ligure.
Solo attorno al mille avanti Cristo arrivarono i celti, che mutarono i tratti linguistici sia in Catalogna (Celtiberia), sia in Occitania (Celtoccania) che in Padania (Celtitalia). Questo evento mischiò paradossalmente le carte e preparò la crisi della nostra Macroliguria: in Iberia stabilì un fondo comune con l’altopiano centrale, in Occitania col resto della Gallia Transalpina e in Padania rese più agguerrita Roma, decisa a far fuori un’etnia più attrezzata e pericolosa di quella Ligure. In tal modo le tre plaghe, pur accomunate da una radice identica, furon costrette, col progredire dei secoli verso l’età di mezzo, a proseguire ciascuna “in isolamento”, seguendo binari paralleli e ormai incapaci di fondare statualità così ampie da poter competere con quelli che diventeranno rispettivamente Regno di Castiglia e Regno di Franchia, oppure di valorizzare la propria autonomia e diversità nel più complesso contesto italiano.
Nel corso del Medioevo brilla sicuramente il regno di Aragona (comprendente l’intera Catalogna) ma l’espansione mediterranea di quest’ultimo verso le isole e il Suditalia (vizio ripetuto secoli dopo dai Savoia) finisce coll’emarginare e ghettizzare i catalani in Iberia, rendendoli incapaci di resistere alla pressione castigliana. Tra Pirenei e Alpi si costituiscono alcune entità politiche come Contea di Tolosa e Regno di Borgogna, esprimenti tra l’altro un’ottima civiltà cortigiana, che vengono abilmente ridimensionate dall’onnivora e prepotente franchità di Parigi, identità linguistica detta “oilia-ghetna” che divorerà quella occitana.
Ma non basterà la Visconzia di Giangaleazzo, arrivata fino a Perugia nel Quattrocento, a salvare l’antica “matria”, mangiata a poco a poco dalla toscanità letteraria e dalla fregola prerisorgimentale. Si può affermare peraltro che la stagione medievale della letteratura cosiddetta provenzale, estesa con le sue magnifiche cantate trobadoriche dalla Catalogna al Veneto, abbia costituito una testimonianza alta e irripetibile dell’esistenza di quello che riteniamo essere un vero e proprio Quarto Stato rispetto a Francia, Spagna e Italia.
L’idioma provenzale costituì allora una sorta di “lingua franca” compresa abbastanza bene da tutti gli abitati delle tre Valli, da Barcellona a Tolosa, da Marsiglia a Bologna. Del resto se solo si volesse dare uno sguardo attento e sincero alle caratteristiche delle lingue parlate ancora oggi nel quarto Stato ci si renderebbe ampiamente conto di quanto sussista un forte fondo comune che il tentato sradicamento e svilimento ( per non dire plagio) da parte di italiano, francese e spagnolo non è riuscito a distruggere.
Uno dei tanti esempi, che valgono più di una dotta disquisizione tecnica su morfologia, fonetica e sintassi? A Barcellona si dice “preghem” per preghiamo, a Marsiglia “vutanta” per Ottanta: proprio come a Milano! Numerosissime comunanze e assonanze grammaticali e lessicali, dalla vita materiale alle scelte di strategia della comunicazione linguistica. Non parliamo poi della cosiddetta antropologia culturale, che testimonia di usi e costumi assai simili, dalla casa rurale (lo stile catalano, provenzale e padano si staccano sia dalla verticalità francese che dalla orizzontalità propriamente mediterranea) alla logica dei legami di parentela (castigliani e ausonici tendono a costruire grandi famiglie e “case nostre”, i francogermanici nuclei che non valorizzano per tradizione l’anello intermedio tra tribù e individuo: il nostro quarto stato si comporta come equilibrata terra di mezzo) che lascia più spazio alla libertà costruttiva).
Mi sembra significativa anche l’immigrazione interna al quarto stato. A Marsiglia, come ci racconta Dumas, esisteva un folto quartiere abitato da catalani, a Barcellona arrivarono a suo tempo molti genovesi e in Padania, dopo il successo dei trovatori ha imperversato per un certo tempo il clan dei marsigliesi (e sarà un caso che l’attore occitano Fernandel tanta gloria abbia ottenuto in Padania interpretando un prete emiliano?).
Purtroppo le principali città del Quarto Stato sono ridotte oggi a bacini di immigrazione extracomunitaria, in misura maggiore che nei tre Stati ufficiali, abili nel gettare nelle loro tre valli-pattumiera la spazzatura umana del mondo. In particolare l’antica Massalia è stata sconvolta dai satanici piani demografici della Repubblica francese, complice fin dall’Ottocento lo scippo dell’inno della marsigliese che ha cominciato a rendere il Sud sinistra succursale (ma destra in fatto di scelte politiche) del dirigismo parigino.
La campanella della modernità è suonata ansiosamente per i tre maggiori stati neolatini che hanno dovuto ancora confrontarsi col problema della rivoluzione borghese e proletaria, ottima occasione per smascherare la falsa legittimazione degli Stati nazioni nati nel corso del Quattrocento e Cinquecento (Spagna e Francia con tanto di scettro e corona, l’Italia con la toscoitalicità imposta nelle corti rinascimentali del Nord a dispetto di dialetti e culture padane). Ma ancora una volta, a partire dalla Rivoluzione francese e da Napoleone per arrivare all’epopea socialcomunista e fascista) i boiardi di stato di Madrid, Parigi e Roma hanno abilmente camuffato i termini della contesa. È nato così a poco a poco il mito del Quarto Stato come
necessaria presenza della classe lavoratrice, attrice principale della Storia (se date un’occhiata ai libri di testo attuali in vigore nelle scuole dei tre Paesi potete capire quanto sia vivo e vegeto questo modo di interpretare la modernità), ben simboleggiato dall’opera pittorica del padano Pelizza di Volpedo (dal nome così biecamente ispanico!) che è stata usata come traduzione alle masse degli ardui testi marxiani.
In realtà il solo vero Quarto Stato è quello che idealmente raggruppa catalani, occitani e padani, i veri vinti della storia: perché la cosiddetta lotta di classe, come scrivevo già 30 anni fa su Lombardia Autonomista, altro non è che una nuova versione della lotta di etnia, riciclata ogni volta con grande abilità dalle ideologie mondialiste come il capitalismo e il comunismo, costrette a rivalorizzare continuamente il potere delle loro agenzie macrostatali.
Uno Stato come quello che non è mai nato sulle rive di Po, Ebro (da non sottovalutare la lingua aragonese, simile al catalano) e Rodano (la Linguadoca – compresa il tolosano – ne è appendice naturale e strategica per la matrice linguistica) rappresenta tra l’altro, in potenza, un modello di reale Federalismo, proprio perché unisce popoli simili che non hanno mai tentato di prevaricare l’uno sull’altro. Un sogno che forse non si avvererà mai, destinato comunque a fare da monito a chi continua a ragionare in termini di centralismo protervo. Per ora l’unica strada maestra percorribile rimane infatti il Federalismo interni ai tre Stati, una sorta di palestra rieducativa rispetto alle pretese genocide dei tre astuti e perfidi Tricolori (quello spagnolo falso bicolore perché uno de due rossi è quello eurosocialista, pronto ad agire in chiave zapateriana attraverso nuovi generali anticatalani: non è un caso comunque che il tre sia il numero più amato dai repubblicani del 1797 e del 1948).
È possibile tuttavia praticare un’altra via parallela, quella della comunicazione e collaborazione interlinguistica tra le tre realtà “minoritarie”. Solo la maturazione della coscienza di possedere lingue simili può favorire la precisa volontà di impostare una sorta di confederalismo culturale e identitario
tra Padania, Occitania e quella che preferisco, anche per necessità di rima ma non solo , chiamare “Catalania”.
Per questo motivo il Centro regionale delle Culture Lombarde strutturò un progetto per studiare in chiave comparativa e interlinguistica alcuni idiomi occitani e catalani, stabilendo tra l’altro contatti coi rispettivi Centri o istituti di analisi e divulgazione.
Sappiamo che la situazione in Francia è molto critica, contrariamente che in Catalania. Ma “resuscitare i morti” è stato da sempre lo scherzo più fantasioso e al tempo stesso più concreto operato dalla storia occidentale. E si potrebbe cominciare, appena al di là della frontiera, cogli spunti arrivati recentemente dal Principato di Monaco, dove Alberto intendeva ripristinare i fasti dell’antico dialetto locale, di impianto ligureprovenzale.
La devoluzione linguistica dei tre maggiori Paesi neolatini va così rivista in chiave di collaborazione e preziosi contatti. Difficile pensare ad altre modalità di passaggio lla Posmodernità: decolonizzazione interna all’Europa e recupero parallelo delle vere identità, di nuovo alleate tra loro. Se il seme giusto verrà gettato, sotto le Alpi e sotto i Pirenei, sarà l’epopea del Terzo e Quarto (tanto per stare al gioco e alla sfida) Millennio a rifondare gli spazi della libertà dei popoli.