di GILBERTO ONETO – Il primo articolo dello Statuto leghista dice che l’obiettivo del partito è il conseguimento dell’indipendenza della Padania per vie democratiche. Questo significa – o dovrebbe significare – che ogni attività, sforzo ed energia sono dedicate a questo unico obiettivo e che ogni altro evento e oggetto assume il valore di mezzo devoluto a questo fine. È perciò piuttosto chiaro che anche l’acquisizione di potere politico all’interno delle istituzioni non può essere che uno strumento per arrivare all’indipendenza: questo vale per ogni incarico governativo nazionale e locale e per ogni presenza nelle istituzioni e in qualsiasi altro organismo. Per essere più chiari ancora si deve specificare che la presenza nel governo della Repubblica italiana avrebbe dovuto avere una funzione di disgregazione dall’interno dello Stato da cui ci si vuole separare: un obiettivo piuttosto improbabile oltre che stravagante, che infatti non è stato neppure sfiorato. Diversa è la situazione degli enti locali, il cui controllo può davvero essere l’arma vincente per preparare e raggiungere l’indipendenza.
Per farlo però occorre che siano verificate alcune precise condizioni: 1) che sia molto chiaro il percorso di separazione attraverso passi coerenti successivi; 2) che il controllo del potere locale sia subordinato al progetto generale; 3) che esista un preciso coordinamento fra i poteri locali conquistati; 4) che gli uomini impegnati in questa azione di “conquista” siano preparati, consapevoli del loro ruolo e sinceri nelle intenzioni indipendentiste; 5) che l’attività di “buon governo” locale sia uno strumento per poter perseguire gli obiettivi e non il fine della conquista del potere. Occorre cioè che la buona gestione dell’asfalto stradale serva a spianare la strada verso la libertà politica e non sia “solo” lo strumento per rendere migliore la vita dei cittadini.
Salvo alcune lodevoli eccezioni – che hanno però agito in solitudine e spontaneità – la maggioranza delle amministrazioni locali leghiste non ha fatto niente di tutto questo: la più parte si è dedicata a bene amministrare ma non ha fatto granché (o proprio niente) per utilizzare il suo potere ai fini dell’indipendenza della Padania.
La Lega è arrivata ad avere i governatori di tre regioni, i presidenti di una ventina di province e i sindaci di molte centinaia di comuni, fra cui molti capoluoghi ma – salvo le poche eccezioni di cui si è detto – non ha lasciato segni di forte identità, non ha creato migliori presupposti per l’indipendenza, non ha “educato” i cittadini amministrati alla voglia di separazione dall’Italia. Quasi tutti hanno governato bene, il loro tasso di inefficienza e corruzione è sicuramente molto inferiore a quello degli altri, ma hanno sostanzialmente fallito il loro scopo. Alcuni sindaci come quelli di Treviso e di Verona hanno amministrato e amministrano con grande capacità le loro città ma non hanno aumentato di un ghello la voglia di indipendenza dei loro cittadini, anzi – dietro il loro apparente leghismo – sono campioni di nazionalismo italione e perciò, di fatto, degli anti leghisti. La maggiore città della Padania è stata governata per un intero mandato da un solido monocolore leghista: è cresciuto a Milano l’afflato indipendentista? Gli assessori alle identità di Piemonte, Lombardia e Veneto hanno incitato i cittadini delle loro regioni alla separazione? Lo stesso vale per chi ha avuto posti importanti in enti strategici. La presenza di leghisti veri o presunti alla Rai ha – ad esempio – portato qualche vantaggio alla lotta indipendentista? La risposta è evidentemente negativa. E allora, a cosa serve fare tanta fatica per conquistare posti e posizioni che servono solo a ingrossare i conti correnti di chi li ricopre? A cosa serve fare lavorare i militanti per accaparrarsi posti e cadreghe che servono solo a rinflaccidire le chiappe che vi si accomodano sopra? Chi fa la regia dell’intera operazione è ciula o è connivente? Chi sceglie i comandanti è suonato o venduto alla parte avversa? I militanti si spaccano la schiena sognando l’indipendenza e mandano al potere rappresentanti che proprio non li rappresentano, che neppure credono in quello che ufficialmente sostengono. La storia della Lega è piena di importanti fuoriusciti che hanno negato di essere mai stati indipendentisti. Ci sono però anche autorevoli capataz ancora in carica che sostengono che la secessione sia “uno stato d’animo” o di non essere mai stati secessionisti, di non crederci, di ritenerlo un espediente dialettico, uno spauracchio per ottenere il federalismo (in realtà solo e sempre cadreghe).
A cosa serve conquistare posizioni di potere se poi non le si utilizza per l’obiettivo per cui si dice di combattere. Si ricorda spesso l’episodio di Pajetta che, occupata la prefettura di Milano, l’aveva comunicato orgoglioso a Togliatti, che gli aveva risposto duro: «Bravo! E adesso cosa te ne fai?» Vale lo stesso per tanti sindaci, presidenti, governatori, parlamentari e ministri leghisti. Con la differenza che il buon Pajetta non prendeva uno stipendio o un vitalizio per l’occupazione della stanza del prefetto.
Nel costruire un serio progetto politico non si può prescindere da questo punto essenziale: come utilizzare le risorse dei poteri locali nel percorso indipendentista. Basta con la panzana dei movimenti “di lotta e di governo”: il “governo” ha senso solo se subordinato alla “lotta”.