Sant’Ambrogio fu nominato vescovo nel 374 a Milano, capitale dell’Impero, quando lo stato romano dava segni di decadenza. Il vescovo aveva capito che “nella società romana in disfacimento, non più sorretta dalle tradizioni, era necessario ricostruire un tessuto morale e sociale che colmasse il pericoloso vuoto di valori che si era venuto creando” (Giovanni Paolo II). La perdita di identità nella mescolanza priva di solidarietà prudente, ha fatto sì che si fosse persa la percezione dei contorni. Come ora. Le città sono di tutti e di nessuno.
Ma c’è una coincidenza: Ambrogio aveva scritto al vescovo Vigilio, nel 385, per raccomandargli di insegnare un’accoglienza amorevole verso gli ospiti ma “non con ricchi doni bensì con cortesie spontanee, piene di pace e di opportuna simpatia”. Aiuti, non privilegi. Poi lo invitava ad opporsi ai matrimoni tra pagani e cristiani. Era lo stile ambrosiano. Al vescovo Vigilio è dedicata in Brianza, a Calco, la parrocchiale dove, anni fa, proprio il prevosto fu oggetto di una brutale aggressione da parte di stranieri. “Si perdona chi si è pentito. Nemmeno il Signore perdona chi non si ravvede”, disse in modo coraggioso il parroco, senza farsi coinvolgere dal buonismo accattone che sincretizza anche il male trasformandolo in male necessario.
Anche Gaber, a modo suo, diede una splendida definizione di questa peste che non si ferma, tra violenza e prevaricazioni: “E’ scoppiata un’epidemia di quelle più maligne, con bubboni che appestano uomini, donne e bambini, l’infezione è trasmessa da topi usciti dalle fogne ma hanno visto abilissime mani lanciarli dai tombini… sono le solite mani che lavorano sotto, che son sempre presenti”.
San’Ambrogio avrebbe approvato. Oggi invece siamo sempre meno pieni di santi e sempre più di santoli, i feudatari del potere, delle nomine, delle intercessioni, dei soldi, delle promozioni. I falsi benevolenti, dalle segreterie politiche che si credono onnipotenti al mezzocapo, al capo, al… capone.