Mafia 1/ Non è un’anomalia del Sud

di ROMANO BRACALINI

Giuliano Ferrara per aver detto in una trasmissione televisiva che la mafia è connaturata con la società e la mentalità siciliana, venne ricoperto di insulti da anonimi difensori dell’onore siciliano. Lo sanno tutti che la mafia non esiste e che è una sporca invenzione dei detrattori del povero Sud.

Eppure in un libro-rivelazione di un ex commissario di polizia siciliano, Giuseppe Alongi, ”La Mafia: fattori, manifestazione, rimedi”, scritto nel lontano 1904, si leggevano frasi che davano ragione a Ferrara e smentivano l’ipocrisia isolana. ”La mafia, scriveva l’Alongi, non è una vera setta ma un modo di sentire atavico. L’onesto ricorre alla magistratura o anche al duello; il mafioso non si fa scrupolo di spingersi all’insidia e all’agguato. Questo sentimento atavico genera, per affinità morali, delle associazioni, dei clan, delle cosche, come suole avvenire tra coloro che hanno una medesima fede politica o tra coloro che esercitano una stessa professione; ma in dati luoghi il mafioso si organizza anche in sodalizi criminosi…”. Ieri vigeva la confraternita della lupara, oggi la mafia è una impresa finanziaria, la più lucrosa del paese avendo i suoi tentacoli anche al Nord. Ma lo spirito è lo stesso di sempre. La mafia, dice in sostanza l’Alongi, non è, come si vorrebbe far credere, una anomalia, una eccezione, un ricetto di criminali messisi fuori della legge e contro di essa, ma un costume diffuso, una mentalità persistente, un istinto di ribellione contro ogni potere venuto da fuori e non riconosciuto dall’intera comunità. In Sicilia si ricorre al mafioso, non di rado impersonato dalla stessa autorità statale, per avere un posto, una raccomandazione; si ricorre al mafioso per istinto di protezione e di sottomissione. Il mafioso è un benefattore per il popolino che ne trae giovamento. Il risultato è che la legge viene rispettata solo da chi non è abbastanza ardito da violarla; che quantunque vi siano leggi, funzionari, tribunali e forza pubblica, il patrimonio pubblico è di chi se lo sa prendere; le vite e le sostanze dei cittadini sono in balia dei più prepotenti.

Le elezioni al Sud, ieri come oggi, sono sempre state manipolate, la mafia elegge in Parlamento i suoi rappresentanti. Galantuomini, baroni, cavalieri, ieri come oggi, si installano nelle prefetture, nei comuni, per fare opera di persuasione, di ricatto e di intimidazione, per indurre gli elettori a dare il voto ai candidati governativi. Aristide Gunnella, in Sicilia, raccoglieva i voti per il PRI di Ugo La Malfa, con gli stessi metodi, finchè non venne cacciato. Ma gli scrittori meridionali hanno sempre dato una spiegazione consolatoria della mafia e della camorra. Napoleone Colajanni, deputato repubblicano siciliano, spiegava il fenomeno mafioso con la povertà e l’analfabetismo. Indubbiamente la trascuratezza dei governi, la miseria e l’ignoranza -che al Sud al momento dell’unità toccavano punte africane- erano cause di turbolenze e ribellioni; ma non si diceva che la criminalità offriva alternative più allettanti (e meno faticose) di un lavoro onesto e malretribuito. Furono due deputati conservatori toscani, Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, che senza le omertà e le ipocrisie degli intellettuali meridionali, nel 1876 si recarono in Sicilia per spiegare al resto del paese i risvolti criminali della vita siciliana. Scoprirono che delegati di polizia avevano impiantato la mafia nel loro mandamento, che si erano legati a ladri notori e che li mandavano a rubare e che, in questo modo, si guadagnavano la promozione. La guardia nazionale di Monreale, Palermo, era composta tutta da mafiosi, col permesso dei quali si commettevano tutti i misfatti della provincia, tanto da far dire a un magistrato: ”Qui si ruba, si uccide, si grassa in nome del reale governo”.

Il voto di scambio era già un sistema invalso, che non ha perduto attualità nel Sud, essendo la moralità del voto, inesistente. Anche i maestri elementari dicevano come dovevano votare i genitori; ed era facile capire cosa sarebbe capitato loro se i genitori non avessero obbedito. La complicità apparente è universale, come l’omertà. “Nente sacciu” è la parola d’ordine e nessuno sgarra, perché chi sgarra paga. In Sicilia le menti non sono in grado di distinguere l’interesse pubblico dal loro personale interesse personale. Manca nella generalità dei siciliani il sentimento della legge superiore a tutti e uguale per tutti. Ciascuno si fa la legge che più gli aggrada. E’ un principio che si applica in tutto il Mezzogiorno. In centocinquant’anni non è cambiato niente. Nella società siciliana il senso del gruppo, della cosca, della famiglia, ”familismo amorale”, è un punto di forza reciproco per il conseguimento immediato di uno scopo. Tutto questo prende il nome di Mafia, parola di origine araba, che un prefetto di Caltanissetta, profondo conoscitore dell’isola, definiva nel modo seguente: ”E’ mafioso colui che per un sentimento medievale crede di poter provvedere alla sicurezza e incolumità di se stesso e dei propri avere, mercè il suo valore e la sua influenza personale, indipendentemente dall’azione dell’autorità di governo, non di rado contro di essa…”. Sicilia riottosa alle leggi e alle regole e con una confusa idea dell’onestà comunemente intesa. Centotrentasette anni dopo la famosa inchiesta in Sicilia ciascuno può dire se le due civiltà -quella del Sud e quella del Nord- abbiano dato vita a un modello di vita, se non identico almeno analogo, e se la Sicilia e l’intero Sud, come sperava Franchetti, senza crederci troppo, hanno saputo guarire ed emendarsi dagli antichi mali: clientelismo, mafia, camorra, corruzione, ladrocinio, arbitro, che Franchetti, con più sagacia, onestà e limpididezza di concetti aveva saputo svelare a una Italia ignara e sbigottita.

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