Ma Salvini sa cos’è il Sud?

colonialismo suddi ROMANO BRACALINI

Ciò che andremo a narrare, pur suscitando talvolta sgomento o ilarità, a seconda dei gusti,rientra nel novero delle disgrazie e dei luttuosi eventi che il destino s’incarica talvolta di procurare ai popoli. Il Risorgimento ebbe due filoni: uno moderato monarchico e l’altro democratico-repubblicano. Non conseguì lo scopo che si era prefissato. Non basta fondare una nazione assente il popolo. Il popolo rimase estraneo a entrambe le correnti. L’Italia non si sapeva che fosse. Al Nord c’era piuttosto un “patriottismo di città”, un forte spirito municipale. Al Sud si credeva che la “Talia” fosse la moglie del re. Il mazzinianesimo giovò, ma al risveglio del 1848 fu come la pulce che “essendo indosso al leone si attribuisce la forza del leone”. Più che l’azione e la propaganda, giovò la letteratura romantica: la Disfida di Barletta di D’Azeglio, i romanzi storici di Grossi e Guerrazzi, giòvò la musica di Verdi con i versi scellerati, ma patriottici: ”Ma noi, noi donne italiche, cinte di ferro il seno…”. Si resuscitò la Compagnia della morte, a Milano giovani ardimentosi passeggiavano tronfi col cappello a piume, il vestito di velluto nero e lo stiletto a fianco, ma quando si trattò di affrontare gli austriaci scapparono tutti a Lugano. Uno della Compagnia descriveva così la rivoluzione del ’48: ”Se semm solevaa, i todesch han daa indree, e nun avant e i todesch indree-e nun avant. Ma i todesch – aggiungeva con meraviglia -, s’hin fermaa. E nun indree. E todesch avant… e nun indree… finchè semm rivaa a… Lugan”.

Ci fu da ridere anche quando i garibaldini arrivarono al Sud. Crispi, noto impostore, aveva convinto Garibaldi mostrando dispacci falsi che annunciavano la rivoluzione siciliana. I garibaldini erano scettici. C’erano due cose che principalmente non vedevano in Sicilia: la rivoluzione e l’uso del congiuntivo. A Napoli si conoscevano per filo e per segno i preparativi della spedizione, il nome dei due piroscafi ad essa destinati: Piemonte e Lombardo; e il numero dei componenti la spedizione medesima. L’ammiraglio borbonico Acton si trovava nelle acque della Sicilia con tre corvette, pronto a colare a picco le due navi garibaldine. In Sicilia c’erano quattromila soldati borbonici. Altri 3000 a Napoli erano pronti a partire per l’isola. Ora, mentre a Napoli si attendeva la notizia dell’affondamento delle due navi garibaldine, giunse notizia che due navi da guerra inglesi si erano messe tra le corvette dell’Acton e il Piemonte e il Lombardo. I borbonici dovettero sgombrare. I garibaldini sbarcarono a Marsala. Accoglienza glaciale. A Calatafimi grandinavano le palle. I borbonici venivano all’attacco gridando: ”Ricchioni, fetentoni, cornuti…”. Ai garibaldini venne comandato di gettarsi faccia a terra. Solo Garibaldi rimase in piedi. Venne acclamato vincitore. I borbonici ci credettero sulla parola. Un successo chiamò l’altro. Il panico si diffuse fra i borbonici. A Palermo il panico fece sparare inutilmente centomila fucilate. Un soldato d’ordinanza pulendo il fucile carico fece partire accidentalmente un colpo. Al quale seguì dalla caserma vicina un fuoco di fila; e ne seguì uno dal corpo di guardia del Palazzo Reale, così di seguito tutto il giorno.

Inenarrabili le mangerie degli alti e bassi funzionari borbonici. Quando i garibaldini sbarcarono nel continente cercarono la gran strada delle Calabrie che le carte geografiche del Regno delle Due Sicilie segnavano senza possibilità di equivoco. Negli archivi esistevano non solo i piani della strada, ma le perizie per l’appalto dei lavori, i contratti d’appalto, i verbali delle aggiudicazioni, i pagamenti rateali eseguiti dallo stato, i collaudi degli ingegneri. Ma la strada non si trovò. C’era tutto, tranne la strada; se l’erano mangiata prima ancora di farla. Il 20 settembre 1860, Garibaldi fece il suo trionfale ingresso a Napoli, con la scorta d’onore composta dai capi più rinomati della camorra. L’indomani a Palazzo d’Angri, dove s’era installato come un sovrano assoluto, volle dare un segno del cambiamento dando udienza al popolo. Il quale popolo si arrangiava con i ritrovati dell’astuzia partenopea. Un giorno entra il primo postulante seguito da un uomo male in arnese. Il postulante comincia a perorare la causa:l’oratoria appassionata e drammatica di scuola napoletana, la voce atteggiata a teatro, il gesto ampio e solenne della braccia. Il dittatore lo ascoltò finchè non ebbe finito. Quindi gli va incontro dicendogli: ”Farò quanto posso per voi-datemi la petizione. ”Ecco qua, Eccellenza”, e indicò l’uomo dietro di lui. ”Io non sono che l’oratore”. Era un grande avvocato che per una lira s’investiva della parte di chi voleva ottenere qualcosa per mezzo delle narrazioni poetiche. Napoli era una città d’avvocati, per lo più paglietti, mozzorecchi, poveri cristi che per poco in Tribunale offrivano un testimone falso. Pareva la metafora dell’Unità fatta con le peggiori intenzioni.

 

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