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L’ordine da Mosca era: uccidere il Papa per invadere l’Europa. Ecco le cartine del piano militare

INVASIONE EUROPAdi PIERO LA PORTA* – Questo articolo è dedicato alle famiglie delle vittime del terro-rismo, ai politici, come ai fun-zionari, ai giudici, agli operai, ai carabinieri, ai poliziotti, ai semplici cittadini, centinaia di persone, centinaia di famiglie
straziate, ingannate, alle quali nessuno potrà restituire i loro cari, non di meno hanno diritto alla verità. Anni fa venimmo in possesso di alcune copie computerizzate dei piani invasione del Patto di Varsavia. Erano sei o sette cartine con le solite frecce ed i simboli delle forze militari. Provenivano da un archivio aperto al pubblico della Bundeswher, l’esercito tedesco; roba da studiosi, niente a che fare con spioni o simili. Documenti analoghi e più numerosi furono pubblicati da un’a-genzia d’informazione di Monaco di Baviera e dalla Rivista militare austriaca. Pagine di tal fatta ne circolano a pacchi in Germania, Austria e Ungheria, in Europa, nel Mondo, sul web, ma
non in Italia.
Esaminati quei piani, conoscendo le tec-niche di guerra dei sovietici, vi erano dei particolari che non tornavano affatto. Ne elenchiamo alcuni, senza entrare troppo nei dettagli. Il Patto di Varsavia entrava in Italia da Tarvisio e Brennero.
Volevano far passare le divisioni coraz-zate sui due passi montani, si fa per dire più agevoli, per conquistare la pianura.
La manovra principale si svolgeva nel Centro Europa. Terrorizzante. Partivano dalla Polonia per devastare tutta l’Europa e conquistarla in quindici giorni, arrivando sull’Atlantico, lungo tre direttrici sulle quali intendevano pol-verizzare qualunque resistenza con un migliaio di attacchi nucleari su città e obiettivi militari indiscriminatamente. Era una macchina di morte che spazzava l’Europa dal Circolo polare artico al Mediterraneo. Fu tenuta in piedi, col motore sempre acceso, giorno
dopo giorno, dalla metà degli anni ’70 alla metà degli anni ’80. Per costruirla e mantenerla, avevano spremuto sangue dai lavoratori dell’Europa orientale, fin dal giorno successivo alla caduta di Khruscev, dedicando alle spese militari percentuali folli di prodotto interno lordo, incrementate alme-no del quattro per cento anno dopo anno.

La guerra finirono per perderla perché non la fecero mai scoppiare, perché quella macchi-na enorme di sei milioni di individui e divisioni corazzate e missili, navi aerei, logistiche, trasmissioni, aveva un costo folle, un monu-mento storico alla pazzia umana, come mai è stato edificato, una torre di babele bellica, grottesca e tragica, come nessun altra nella storia dell’umanità. Questa macchina col motore sempre acceso per oltre dieci anni, alla fine per nostra fortuna grippò e tutto fini
come si sa. Anzi, tentarono di avviarla con l’inva-sione dell’Afghanistan, cominciata la notte di Natale del 1979. Partivano da lì per tagliare la jugulare energetica dell’Occidente. Il secondo attacco, quello
dalla Polonia, sarebbe scattato di lì a poco, ma intervenne un piccolo granello di sabbia nell’ingranaggio perfetto che avevano preparato, Solidarnosc, il sindacato cattolico polacco fortemente so-stenuto da Giovani Paolo II.

Il presupposto del piano di attacco era la rapidità, entro quindici giorni, abbiamo detto, dovevano conquistare l’Europa. Ma questo imponeva che le retrovie dell’attacco – quelle principali, ribadiamolo, erano in Polonia – dovessero alimentare incessantemente la fronte avanzata dell’attacco, perché altrimenti avrebbe rallentato, se non arrestandosi del tutto, e sarebbe stata una sciagura per loro, perché temevano come la peste l’arrivo dei rinforzi strategici americani da oltre Atlantico e la reazione degli Stati Uniti. La via principale per scongiurare tale eventualità era la solita tecnica sovietica del “fatto compiuto”, contando sul fatto che gli Usa non avrebbero rischiato una guerra termonucleare sul loro territorio per riconquistare
un’Europa che si era fatta invadere senza troppe resistenze. La rapidità era dunque il requisito irrinunciabile del piano di attacco.

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Se il lettore supponesse di partire da Varsavia per andare a Parigi in quindici giorni, avanzando di 150 chilometri ogni giorno, fermandosi a pranzare e visitare città, invece di combattere e logorarsi come avrebbero fatto i solda-ti del Patto di Varsavia, quel nostro lettore avrebbe dei problemi a rispetta-re la tabella di marcia. Immaginatevi che panico gli è preso ai generali del-l’Armata Rossa quando si sono visti comparire nelle retrovie polacche il problema Solidarnosc, o meglio, Giovanni Paolo II. Nel 1979 hanno deciso di ucciderlo e se n’è fatto carico il Gru, il servizio segreto militare, non il Kgb, come s’è detto troppo a lungo.
Anche l’Italia aveva la sua non trascu-rabile importanza in tutto questo. Le basi terrestri, aeree e navali del nord Italia erano destinate ad accogliere gran parte dei rinforzi americani e da li far partire i contrattacchi sul fianco del dispositivo sovietico. Ma chi conosce i passi del Brennero e Tarvisio sa bene che sono due Termopili, cioè sono facilmente difendibili e consentono, una volta rallentato l’attacco, di riversarvi sopra tutto il fuoco dispo-nibile, specialmente quello aereo. Vi sono altre decine di passaggi sulle Alpi, come si sa, ma non consentono l’ingresso delle truppe corazzate, indispensabili per assumere il controllo della pianura fra il Lago di Garda e Gorizia, tagliando tutte le vie di comunicazione a tergo del
dispositivo italiano in quel momento e costringerlo al collasso ed alla resa.
Il presupposto irrinunciabile della manovra del Patto di Varsavia per assicurarsi i passi di Brennero e Tarvisio è che la reazione militare italiana non sia alimentata dalle retrovie venete e del Trentino. Al Patto di Varsavia occorre largo
impiego di forze speciali, Spetsznaz e aviotrasportate, caos nelle retrovie italiane con attiva complicità dell’eversione italiana, perfetta conoscenza dei dettagli della difesa italiana. In due concetti: attacco spregiudicato del Patto e tradimento nelle fila italiane. Le truppe del Patto entrano in Italia dal Brennero, scendono per Trento e Verona, biforcano, a ovest, su Bergamo, Milano, Torino, a Est su Bologna, Reggio Emilia, Padova, Venezia, Udine. Sono le città dove le Brigate Rosse sono nate, hanno attecchito, si sono sviluppate. Qual è stato l’evento centrale delle Br? Il rapimento di Aldo Moro. I misteri furono innumerevoli. Si parlò incessantemente di servizi deviati. C’erano e lavoravano per il nemico, visto che non videro dopo due ore quello che vediamo oggi dopo vent’anni. Stiamo all’essenziale.

Coloro i quali rapiscono Moro dimostrano un’abilità con le armi che non è quella improvvisata di giovanotti avventurieri, politici autodidatti, come dipinti da Cossiga. Il volume di fuoco e la precisione istintiva dei colpi messi a segno tradiscono una scuola di eccezio-nale efficacia militare. Le indagini della magistratura glissano.

 

 

 

 

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Ma c’è un altro aspetto su cui riflettere: Gladio o, meglio, Stay Behind, la struttura della Nato costituita per combattere nelle retrovie sovietiche dopo l’invasione. Quelli che interrogavano Moro lo hanno sollecitato a rispondere sulla struttura Stay Behind. Questa era una struttura difensiva della Nato, le Br lo sapevano bene. Gladio e i piani di difesa della Nato erano parte d’una medesima costruzione, perfettamente legale tra l’altro. Le Br, quindi, erano interessate a indagare le difese della Nato. Ma si fece una cortina fumogena intorno al significato di Gladio, ricordiamolo oggi, come avvenne nel 1991, quando, sbriciolandosi l’Unione sovietica, il Pci avrebbe potuto fare la fine che poi hanno patito Dc e Psi, quest’ultimo più o meno combattendo, quell’altra rassegnata e con una leadership interamente nelle mani del nemico. Il processo in piazza che Moro aveva scongiurato altri consentirono di gran lena.
Nell’ottobre del 1990, quando la Digos di Milano “scopre” le copie del memoriale Moro in un vecchio covo Br, Andreotti e Cossiga concentrano tutta l’attenzione sulla Gladio, l’uno “additandola”, l’altro “difendendola”. L’effetto finale è che le luci rimangono puntate solo lì. L’ammiraglio Fulvio Martini, direttore del Sismi, viene rimosso da Andreotti. Dieci anni dopo si scopre che l’ammiraglio Martini nei giorni di Moro aveva scoperto che il fascicolo di Stay Behind era sparito dalla cassaforte del ministro della Difesa, l’onorevole Attilio Ruffini, e per tale motivo aveva avuto un alterco col ministro, talmente intenso da far svenire l’ammiraglio. Chi conobbe Martini comprende che non fu una discussione da bar dello sport. Erano stati violati dei documenti segretissimi e procedure altrettanto riservate, con modalità a dir poco scandalose. Che cosa fa la Commissione stragi, diretta dal senatore Pellegrino, nella scorsa legislatura? Tutto tranne quello che dovrebbe, cioè approfondire fino all’osso.
D’altro canto se le Br erano – com’è dimostrato – interessate alle difese della Nato, ai loro committenti, i sovietici, interessava ben altro che Stay Behind. Le polemiche su Gladio erano nient’al-tro che fumo.
Dopo tutto Stay Behind si sarebbe materializzata contro le truppe comuniste solo quando l’invasione si fosse oramai realizzata. Il punto era l’invasione, farla velocemente e passare attraverso i valichi alpini. Che cosa è stato dato nei giorni di Moro alle Br? Chi assicura che Moro non sia stato torturato? La morte di Moro ha messo i ricattati nelle mani dei ricattatori, eliminando l’unico testimone che avrebbe potuto inchiodare gli assassini e dipanare le loro trame. Gli assassini sono tutti liberi e conducono vite invidiabili. Perché?

(*da Il Federalsimo del 16 gennaio 2006, direttore responsabile Stefania Piazzo)

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