di SILVIA GARBELLI – Seppure non sia di recente pubblicazione (2001, edizione Biblioteca Universale Rizzoli), L’Italia prima dell’unità (1815-1860) di Romano Bracalini è fondamentale per chiunque desideri conoscere in modo approfondito le differenze degli Stati preunitari. È un’interessante e completo “spaccato” di vita quotidiana, affrontato per temi e argomenti: una miriade di consuetudini e modi di vivere completamente diversi in ogni Stato. “Ironico e polemico”, si precisa nella copertina e, in effetti, da grande storico, Bracalini illustra senza mai annoiare l’epoca che precede il processo di unificazione italiana, un’epoca segnata da un’evidente disomogeneità a ogni livello, che ben fa comprendere il “difficile amalgama d’oggi”. Se poi si considera, come affermò nel 1882 lo storico francese Ernest Renan, che una nazione è punto d’arrivo della condivisione di un passato comune, e questo possedevano gli Stati preunitari, è evidente la forzatura dell’azione di sopraffazione socioculturale subita.
Nel libro giocano un ruolo estremamente interessante le testimonianze e i giudizi sinceri rilasciati dalle molte personalità straniere come René de Chateaubriand, Alphonse de Lamartine, Hector Ber-lioz, Alfred de Musset, Stendhal, Giovanni Berchet…; tutti visitarono i diversi Stati, uniti poi forzatamente con cannoni, baionette e plebisciti truccati. Wolfgang Goethe definì Napoli «un paradiso abitato da diavoli»; il tedesco Ferdinand Gregorovius considerava la città di Roma «la più irreligiosa e anticristiana del mondo» e condivideva con lo storico Vittorio Bersezio il giudizio sul Piemonte sabaudo «come non appartenente né all’Italia, né alla Francia».
Il principe Metternich, diplomatico austriaco, fu molto severo sugli abitanti del Regno delle Due Sicilie, definendoli «un popolo metà barbaro, d’una ignoranza assoluta, d’una superstizione senza limiti…». Altrettanto rilevanti sono le affermazioni di tanti personaggi che vengono oggi a torto considerati fautori del processo risorgimentale: in piena sintonia con il già citato Metternich, Luigi Carlo Farini affermò circa il Regno delle Due Sicilie: «Altro che Italia. Questa è Africa! Se lo stesso deputato meridionale Vito de Bellis ricorreva all’immagine africana per descrivere le irregolarità dei metodi elettorali nel suo collegio di Gioia del Colle, in Puglia». Camillo Benso di Cavour, oltre a riconoscere la supremazia del Lombardo-Veneto asburgico nel sistema dei trasporti poiché all’avanguardia per le tratte ferroviarie, non si era mai spinto oltre Firenze. E Vincenzo Gioberti, «fautore di un’Italia federale sotto l’egida del papato romano» e autore de il Primato morale e civile degli Italiani (1843), fece esclamare a D’Azeglio, scettico sulle virtù degli italiani: «Beato lui che ci crede».
L’apertura è sull’inquadramento storico che analizza la situazione dopo il Congresso di Vienna, in seguito alla sconfitta di Napoleone Bonaparte nel 1815. Tutto avviene con l’intento principale di “cancellare ogni vestigia della dominazione france-se”: cinque grandi Stati (Piemonte, Lombardo-Veneto, Toscana, Roma, Napoli) e due piccoli (Parma e Modena) «che aggregavano rispettivamente Lucca e Massa-Carrara»; Genova, invece, «viene data al Piemonte per opporre un forte ante-murale alla Francia». L’analisi affronta la vita pubblica, privata e sociale degli Stati, ognuno con propri criteri e stili di vita costituiti, appunto, da tradizioni ben consolidate. Relativamente alla vita pubblica, prendiamo qui in considerazione alcuni
aspetti.
Nel Lombardo-Veneto, «l’amministrazione – austriaca – era fin troppo disciplinata ed efficiente» o nel Granducato di Toscana i «sudditi erano meno oberati», le casse «più dissestate d’Europa» appartenevano al romano Stato Pontificio; il Piemonte sabaudo «alla carta bollata, all’imposta di consumo e alla tassa fon-diaria, aggiunse la tassa sui salnitri, sui piombi, sulle carni, sul vino, sull’acquavite e sulla birra». Sempre nel Lombardo-Veneto e anche in Toscana, la legislazione civile e penale basata sui codici fondamentali era migliore di quella vigente in Piemonte, dove il «Codice sabaudo, secondo le alterne propensioni della Corte, oscillava tra clemenza e voglia di manette». Lo Statuto Albertino, in vigore su impulso di Carlo Alberto nel 1840 e ispirato al «Codice napoleonico, proclamava l’eguaglianza formale dei cittadini davanti alla legge» e aboliva le torture ma manteneva notevole influenza ai Gesuiti e la pena di morte.
Suona dunque molto strano leggere recenti esaltazioni e rigurgiti italopatriottardi circa libri come Le mie prigioni di Silvio Pellico o Una Protesta del popolo del Regno delle Due Sicilie di Luigi Settembrini, «strenuo assertore dell’unità nazionale»; viceversa, sono «propaganda militante» contro le carceri austriache, considerato che quelle napoletane non erano né «un obbrobrio o una vergognosa eccezione rispetto alla media…». Nella Roma di Pio X, nel 1849, «bastava il solo sospetto di aver appoggiato la Repubblica romana per essere arrestati o uccisi»; Massimo D’Azeglio parlava di «processi oscuri, occulti, composti nel-l’interesse dell’accusa…»; se«nobili e ricchi non andavano in galera», i religiosi erano sempre giudicati da tribunali ecclesiastici. Era addirittura inasprito il nuovo Codice penale nel Regno delle Due Sicilie, dove «per mandare in galera un innocente bastava la denuncia anonima» e «il Codice militare non faceva distinzione tra Stato di guerra e di pace».
La censura, ben radicata in tutti gli Stati, limitava, attraverso un efficace sistema di polizia e di spionaggio, le libertà d’espressione dei cittadini e della stampa; era però esercitata in modalità differenti. Era “più blanda” in Toscana e nel Lombardo-Veneto: lo stesso D’Azeglio pubblicò a Milano il suo Niccolò de’ Lapi, riconoscendo il governo austriaco «il migliore». Nel Ducato di Modena, invece, «chiunque esprimesse un giudizio contrario al governo, al principe o all’amministrazione pubblica era un sovversivo»; a Roma si vietavano addirittura fischi e bis in teatro e «quel poco che si stampava era soggetto a una triplice censura: del Santo Uffizio, del vescovo e del governo».
Anche l’istruzione era intesa e impartita secondo concezioni molto differenti. La qualità migliore si impartiva nel Granducato di Toscana. Nel Lombar-do-Veneto, la lungimirante politica scolastica austriaca di parità di diritti tra i sessi ridusse notevolmente l’analfabetismo, ma negli altri Stati, proprio «per mantenere il popolo nell’ignoranza», non vi fu la volontà di arginare un fenomeno allora tanto diffuso. In Pie-monte, studiavano solo i maschi, «figli di famiglie abbienti» in scuole rette dai Gesuiti e la lingua italiana fu introdotta solo dopo il 1820. A Roma «tutta la letteratura scolastica era ridotta a pochi libri di devozione», previa autorizzazione della Santa Congregazione, men-tre nel Regno delle Due Sicilie l’istruzione era quasi prevalentemente privata e non di buona qualità. Ma l’italiano, o meglio il toscano, era poco parlato e si preferiva l’uso del cosiddetto “dialetto” o lingua locale, come accadeva alla Corte Sabauda anche dopo la fase unitaria. E molto differenti fra loro erano anche
gli aspetti relativi alla vita sociale. Il Lombardo-Veneto era all’avanguardia nell’assistenza socio-sanitaria e il Piemonte disponeva di un esercito «meglio organizzato militarmente», sebbene «lento e difficile da manovrare». Le città andavano assumendo una precisa fisionomia. Senza cade-re in luoghi comuni, si afferma che Torino «si ingrandiva, ma sempre come dépendance della Corte per i suoi riti di rappresentanza», a Milano «agitazione, movimento e ricchezza», Venezia, che «negli Anni Venti cadeva in pezzi», rinasceva come porto franco grazie all’azione dell’Imperatore Francesco I d’Austria.
Ma si lasciano ai lettori le colorite descrizioni relative alla descrizio-ne delle abitazioni e della vita familiare, l’alimentazione, le cerimonie civili e religiose, i giochi e i divertimenti, il lavoro. E come
non citare brevemente le discre-panze presenti nel sistema di trasporti e comunicazioni? Se la generale caratteri-stica geofisica «non facilitava la costruzio-ne di nuove linee» ferroviarie, «l’ostilità
dei governi faceva il resto». A questo si aggiungevano «strade, mal tenute e infestate da banditi» e «lo stato di ubriachezza dei vetturini»; «da Palermo a Napoli diciotto ore di navigazione». I «decreti per
la costruzione di nuove strade» non mancavano, come i ritardi nel servizio postale: lo Stato italiano, con tutte le sue immutabili peculiarità.
da Il settimanale Il Federalismo, direttore responsabile Stefania Piazzo