L’ideale indipendentista è sostenuto da uomini preparati?

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Il Meglio de lindipendenza

di ENZO TRENTIN –  L’Italia è un paese di patrioti e, tutte le volte che le cose vanno male, che gli affari non funzionano, che l’oppressione burocratica e la fiscalità sono troppo pesanti, basta che il governante di turno si metta ad indicare la necessità di solidarizzare con questa o quella causa, perché questi patrioti si scordino delle loro ragioni di malcontento e ardano dal desiderio di supportare questa o quella causa. Di saltate alla gola del nemico, o di proferir minacce contro un paese straniero, non ci pensa nessuno. Sono cose che ricordano il fascismo. Meglio mandare le forze armate attrezzate di tutto punto in missioni di peacekeeping (mantenimento della pace. Tsz!) È così grande la disponibilità italiana nell’offerta di contingenti militari per operazioni all’estero, senza ritorno di “interessi nazionali”, che pare sia l’unico modo di fare una politica estera.

Tramontata l’era dell’autonomismo sul modello delle Regioni a Statuto speciale; dimenticata la rivendicazione per il federalismo, di cui molti non comprendono l’essenza, e che i politicanti non hanno interesse a praticare; la parola d’ordine di alcuni patrioti che ai giorni nostri si occupano attivamente di politica è diventata: indipendenza. A questo punto, tralasciamo la politica “tradizionale” imperniata sui partiti che con il loro comportamento hanno deluso, tediato e stancato l’opinione pubblica. Ed ecco che i cosiddetti indipendentisti sono diventati tali, perché fallita l’era dell’autonomismo e del federalismo non intravvedono altra via che l’autodeterminazione.

indipendenza

Tuttavia nel fronte patriottico indipendentista si apre una dicotomia: da una parte ci sono coloro che chiedono il voto per entrare nelle istituzioni italiane con il proposito di cambiarle dal loro interno. Metodo sinora sempre fallito. Spesso caldeggiato da persone che hanno già avuto incarichi istituzionali, ma che non hanno mai raggiunto gli scopi per i quali erano stati votati. Se poi a questa fazione viene chiesto: «Che tipo di indipendenza sarà?», rispondono semplicisticamente di volere uno Stato il cui ordinamento sia simile a quello svizzero. E qui molti indipendentisti rizzano le orecchie, perché sanno che le stesse semplificazioni furono adottate anche per il federalismo, e di norme o proposte autenticamente federali non se ne sono mai ottenute da questi rappresentanti. Ciò nonostante costoro hanno un codazzo di plebe che incoraggiano con il «Plaudite cives!» (“applaudite cittadini!”). Ma non c’è da stupirsi, la claque esisteva già nella Roma antica. Era un “servizio” per lo più a pagamento, riservato a chi poteva permettersela. E siccome le istituzioni italiane “pagano bene…”, è diffuso il sospetto che loro vogliano entrarci per poter vivere di rendite politiche.

Dall’altro canto si riscontra una massa di cives che pur non essendo plebe, come per esempio le tifoserie calcistiche, è tuttavia inattiva, attendista. Aspetta gli eventi, o l’uomo della provvidenza, ignorando che se c’è non farà sicuramente i loro interessi quando dovesse apparire all’orizzonte. Infatti quando si conferisce un grande potere a una carica, si ignora quali garanzie avrà il cosiddetto “popolo sovrano” nel momento della crisi. Insomma per dirla in termini commerciali: esiste una domanda di mercato, ma l’offerta per soddisfarla è carente.

I patrioti più sensibili fanno propria un’affermazione di Thomas Jefferson: «Se un popolo crede di poter essere libero e disinteressarsi della politica, immagina qualcosa che non è mai stato né mai sarà.» Si sono convinti che una bozza di progetto istituzionale innovativo, potrebbe soddisfare tale domanda, e contemporaneamente rendere inoffensivi i politicanti.

Ad ogni buon conto quando si parla di autodeterminazione si deve tener presente che il principio fu solennemente enunciato da Woodrow Wilson in occasione del Trattato di Versailles (1919), e avrebbe dovuto fungere da linea guida per il tracciamento dei nuovi confini, ma in realtà fu applicato in modo discontinuo e arbitrario. Il principio di autodeterminazione dei popoli si è poi sviluppato compiutamente a partire dal 1945. In particolare, è stata l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) a promuoverne lo sviluppo all’interno della Comunità degli Stati.

Si tenga presente che il princìpio di autodeterminazione dei popoli sancisce l’obbligo, in capo alla comunità degli Stati, a consentire che un popolo sottoposto a dominazione straniera (colonizzazione o occupazione straniera con la forza), o facente parte di uno Stato che pratica l’apartheid, possa determinare il proprio destino in uno dei seguenti modi: ottenere l’indipendenza, associarsi o integrarsi a un altro Stato già in essere, o, comunque, a poter scegliere autonomamente il proprio regime politico. Il princìpio, nell’ambito del diritto internazionale, esplica i suoi effetti solo sui rapporti tra gli Stati e non sancisce alcun diritto all’autodeterminazione in capo a un popolo: quest’ultimo, infatti, non è titolare di un diritto ad autodeterminare il proprio destino ma è solo il materiale beneficiario di tale principio di diritto internazionale, i cui effetti, invece, si ripercuotono solo sui rapporti tra Stati.

Invece, ai sensi del diritto internazionale sui diritti umani, il soggetto titolare del diritto all’autodeterminazione è il popolo come soggetto distinto dallo Stato. Ma in nessuna norma giuridica internazionale c’è la definizione di popolo. Questa reticenza concettuale non è dovuta al caso. Gli Stati giocano sull’ambiguità, non essendo ancora disposti ad ammettere espressamente che i popoli hanno una propria soggettività giuridica internazionale.

Sotto quest’ultimo aspetto, ad oggi, solo la Corte suprema del Canada, valutando le rivendicazioni di indipendenza del Québec rispetto al Canada, ha analizzato attentamente tale principio definendone i limiti: di esso sono autorizzati ad avvalersi ex colonie, popoli soggetti a dominio militare straniero, e gruppi sociali cui le autorità nazionali rifiutino un effettivo diritto allo sviluppo politico, economico, sociale e culturale. (Sentenza 385/1996) Insomma, si può rigirarla come si vuole, ma è indispensabile che il soggetto che vuole autodeterminarsi si dia prima una parvenza di soggetto istituzionale, di comunità politica con norme e regole proprie e condivise dalla maggior parte di quella popolazione cui fa riferimento.

Ciò premesso, un primo (fallito) tentativo di autodeterminazione lo possiamo riscontrare nei giorni stessi in cui il princìpio fu determinato. Alla fine della Grande Guerra, la  conferenza di pace di Parigi del 1919 stabilì che Fiume non poteva essere Italiana, e a molti nazionalisti italiani questa decisione non piacque, perché contraddiceva uno dei principi della Conferenza stessa, quello della “Autodeterminazione dei Popoli”. D’Annunzio si fece portavoce di questa contraddizione e con i suoi legionari occupò Fiume.

Sotto la sua supervisione il Vate affidò immediatamente la redazione di una Costituzione della reggenza italiana del Carnaro – così si chiamò la Repubblica italiana di Fiume – ad un repubblicano fondatore del sindacalismo rivoluzionario, il socialista Alceste de Ambris. La Costituzione nota come Carta del Carnaro, superava di molto lo Statuto Albertino in termini eversivi; doveva instaurare un nuovo ordine fondato sul lavoro, la tutela dei diritti individuali, la giustizia sociale, la prosperità e l’idea di bellezza. Riportiamo qui solo due degli articoli più significativi:

  • 2 – La Repubblica del Carnaro è una democrazia diretta, che ha per base il lavoro produttivo e come criterio organico le più larghe autonomie funzionali e locali. Essa conferma perciò la sovranità collettiva di tutti i cittadini senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di classe e di religione; ma riconosce maggiori diritti ai produttori e decentra, per quanto è possibile, i poteri dello Stato, onde assicurare l’armonica convivenza degli elementi che la compongono.
  • 5 – La Costituzione garantisce inoltre a tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, l’istruzione primaria, il lavoro compensato con un minimo di salario sufficiente alla vita, l’assistenza in caso di malattia o d’involontaria disoccupazione, la pensione per la vecchiaia, l’uso dei beni legittimamente acquistati, l’inviolabilità del domicilio, l’habeas corpus, il risarcimento dei danni in caso di errore giudiziario o di abuso di potere.

La democraticità della Carta è attestata anche dall’introduzione del sistema referendario, sia in chiave propositiva che abrogativa (artt. LVI e LVII), nonché dall’incompatibilità, ossia il nostro moderno conflitto d’interessi: “…Nessun cittadino può esercitare più di un potere né partecipare di due corpi legislativi nel tempo medesimo” (art. LIX).

Orbene, nessuno Stato vuole l’autodeterminazione di una parte della sua popolazione, né che questo determini lo smembramento del suo territorio. E adesso che la propaganda è più potente di quanto lo sia mai stata, e che tutti i suoi strumenti sono in mano a chi regge lo Stato; nell’Italia governata dalla partitocrazia non è più possibile per gli indipendentisti autentici far conoscere la verità.

L’autodeterminazione non è prodotta, se mai lo è stata, da forze economiche semplicisticamente analizzabili. Ora l’autodeterminazione è perlopiù progettata da individui singoli, da demagoghi, e da politicanti che giocano sul patriottismo dei loro concittadini per indurli, una volta che le loro millantate pretese non sono riuscite a soddisfare i popoli soggetti al malgoverno dello Stato dal quale vogliono scindersi, a credere in un grande imbroglio. E il  colossale raggiro in Italia consiste ed è messo in atto da coloro che vogliono farsi eleggere nelle istituzioni dello Stato, per poi da lì “guidare” l’indipendenza.

Capziosamente portano ad esempio la Scozia, la Catalogna o la Corsica, ma sono molto attenti a non mettere in evidenza le sostanziali differenze di questi tre indipendentismi che, in ogni caso, hanno dei precisi progetti di nuovo assetto istituzionale, e che – ancora più importante – hanno il seguito di una consistente parte dell’opinione pubblica cui fanno riferimento.

La questione dell’assetto istituzionale, è evidenziata anche in una intervista concessa dall’ambasciatore russo in Italia: S. S. Razov, all’emittente Radio Nazionale Veneta [www.radionazionaleveneta.org ], dove tra l’altro afferma: «[…] nella fase attuale nessuno Stato è in grado di funzionare senza il decentramento del potere. Il contenuto reale dello status di autonomia dipende dalla portata dei diritti e dei poteri della regione che naturalmente devono essere sanciti nella corretta forma giuridica».

radio nazionale veneta

Ecco allora che molti patrioti sono “distratti” da pseudo indipendentisti che sono molto prodighi nel ricordare lo splendido passato, ma avari di proposte istituzionali credibili, perché troppo attenti a non privarsi delle cospicue rendite politiche di cui vivono da molti anni.

È invece convinzione di molti che si debba lavorare per prefigurare adesso le nuove istituzioni, e con detto progetto si debba agire sul doppio binario:

1) sull’opinione pubblica alla quale ci si vuole rivolgere per avere l’ampio consenso di cui godono i catalani e gli scozzesi, e in misura minore i corsi;

2) operare sul piano internazionale per i necessari appoggi e riconoscimenti.

Naturalmente si può fare altro; ma prima o poi si dovrà arrivare a questo, perché questo rimane il nocciolo del problema.

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