Libertà di stampa: l’appello del giornale svizzero “Il Caffè” e raccolta firme. A processo i giornalisti per lo scandalo dei seni asportati per errore!

rassegna stampa

La procura vuole promuovere l’accusa della Sant’Anna contro il Caffè
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A processo 4 giornalisti
per aver scritto la verità
LIBERO D’AGOSTINO, PATRIZIA GUENZI, STEFANO PIANCA

Denuncia ad agosto, interrogatori tra fine ottobre e inizio dicembre, chiusura dell’inchiesta prima di Natale. E in tempi brevissimi la magistratura ha comunicato due settimane fa al Caffè di essere intenzionata a portare in aula penale, accusandoli di diffamazione e concorrenza sleale – come richiesto dalla denuncia della clinica Sant’Anna – quattro giornalisti della testata, per i servizi pubblicati sulla vicenda della struttura sanitaria privata di Sorengo, ovvero l’asportazione dei seni per un errore di identità ad una paziente allora sessantasettenne. Era l’8 luglio del 2014. Per quel tragico errore sotto inchiesta è finito il chirurgo Piercarlo Rey che però ora chiede  di estendere il procedimento penale ad altri. Le responsabilità, sostiene il medico, non possono essere solo mie ma vanno ricercate anche nell’organizzazione della clinica.
È possibile che l’errore di una sola persona – il chirurgo entrato in sala operatoria convinto di avere sotto i ferri una paziente piuttosto di un’altra – possa annullare ogni procedura di sicurezza interna in merito all’identificazione del paziente e della parte da operare? È proprio per rispondere a questa domanda – di estremo interesse per i cittadini trattandosi di salute – che il Caffè ha realizzato un’inchiesta giornalistica. È per capire come sia possibile che nel 2014 possano accadere simili tragedie (alla donna operata si sarebbe dovuto togliere solo un piccolo tumore sotto un capezzolo) che il Caffè ha pubblicato una serie di servizi. Inappuntabili, vale a dire senza alcun errore o inesattezza. Ma tant’è! La clinica ed evidentemente anche il procuratore Antonio Perugini, ritengono che quei servizi rappresentino un “accanimento giornalistico” e che di fatto abbiamo prodotto una “concorrenza sleale” all’attività della struttura privata.
La denuncia della clinica non indica uno, che sia uno, errore pubblicato dal giornale. E non potrebbe essere altrimenti, perché quanto scritto da maggio a fine luglio (è a questo periodo che fa soprattutto riferimento la querela) si basa tutto su testimonianze rese a verbale e documenti ufficiali.liberta-di-stampa
Sono gli infermieri del blocco operatorio ad aver dichiarato in magistratura che all’epoca dei fatti ogni chirurgo, una volta entrato in sala procedeva come meglio credeva per identificare il paziente: chi scambiava quattro chiacchiere con la persona distesa sul lettino; chi si limitava ad un’occhiata; chi non faceva né l’una né l’altra cosa.
E sono gli infermieri del blocco operatorio ad aver dichiarato a verbale che da qualche tempo, in quell’estate 2014 sempre più spesso e per operazioni non complesse venivano utilizzati come assistenti infermieri strumentisti al posto di medici. Anche quel tragico mattino, anche per quell’operazione di mastectomia bilaterale (cioè l’asportazione totale dei seni). Quel giorno in sala oltre al chirurgo c’erano una strumentista, un aiuto strumentista, un medico anestesista, un’infermiera anestesista. A metà operazione a fare da assistente del chirurgo giunse un’infermiera strumentista.
Ecco che cosa ha raccontato il Caffè, chiedendosi nel contempo quali procedure di sicurezza fossero in realtà in vigore all’interno della clinica, date le precise e circostanziate testimonianze degli infermieri. E chiedendosi se quanto dichiarato a verbale dal personale di sala fosse stato appurato nel corso dell’ispezione del Medico cantonale solo quattro mesi prima quel tragico errore.
Non solo. Il Caffè ha dato conto anche delle dettagliate e preoccupate affermazioni del presidente della Commissione di vigilanza sanitaria,  il giudice Mauro Ermani. In un rapporto redatto un anno dopo i fatti, il giudice ha scritto che… in quella clinica i chirurghi lavoravano come acrobati senza rete di protezione, dovendo passare velocemente da una sala all’altra e con continui cambi di programma. Così ha testualmente scritto.
Sono affermazioni gravi, inquietanti addirittura, su cui è doveroso che un giornale cerchi di far luce  perché i lettori sappiano quali sono, sia nel pubblico che nel privato, le procedure di sicurezza adottate; quale formazione abbia il personale di sala; quali verifiche le autorità di vigilanza compiano per garantire una qualità di cure adeguata all’altissima spesa sanitaria registrata annualmente in Svizzera; quale obbligo avesse la direzione della clinica di denunciare all’autorità sanitaria e a quella penale i gravi fatti accaduti l’8 luglio del 2014 (un obbligo di legge c’era e lo ha ricordato lo stesso giudice Ermani nel suo rapporto). E infine si sappia perché ad avvisare l’autorità sanitaria (tempo dopo anche la magistratura) sia stata la paziente e non la clinica.
Dall’insistenza di queste domande – che ancora oggi non hanno trovato piena risposta – nasce l’accusa di diffamazione e concorrenza sleale.

Per info sulla raccolta firme:

http://www.caffe.ch/firma/

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