di ROMANO BRACALINI – Fu dopo il ’48,nel volontario esilio del Ticino,sulla base dei suoi studi e delle sue meditazioni,che Carlo Cattaneo cominciò a concepire l’ideale federalista che avrebbe dovuto ispirare l’Europa dei popoli. Negli avvenimenti del moto popolare milanese aveva visto la continuazione di tutta la storia dell’Italia comunale. Essa dimostrava che la forza della nazione stava nel popolo delle città e ripeteva con Romagnosi che “la molla, solida, attiva, reale e permanente del vero e sicuro patriottismo stava nel municipio”, e che in lui “solo sta la base di sicurezza di tutto”.
Erano Municipi Pisa, Venezia, Firenze, Genova. Barbarossa fu sconfitto da una lega di città. Venezia salvò l’Europa dai turchi.Viceversa nel ’49 i centomila soldati della monarchia piemontese non seppero contrastare i quarantamila soldati di Radetzky, metà dei quali erano veneti e trentini che non avevano mai sentito l’appartenenza all’Italia. Il potere non si delega;lo si esercita in proprio. Ogni popolo doveva proclamare la sovranità,nominare un’assemblea e organizzarsi autonomamente. Una volta ottenuta la propria libertà, avrebbe cercato di associarsi agli altri in una federazione capace di respingere ogni minaccia alla sua esistenza. E di cooperare alla libertà degli altri popoli in un processo continuo di aggregazioni e fratellanze. La Svizzera si era formata in base a questo principio nel corso di parecchi secoli. L’Europa dei popoli avrebbe dovuto fare altrettanto.
Nessun popolo è nemico dell’altro, solo le oligarchie e i sovrani si inventano i nemici per brama di conquista e di potere. In Lombardia era sempre stato vivo lo spirito autonomistico municipale, e si sarebbe guardato con scarso interesse alla formazione di una qualunque entità statale in cui Milano, la sola città di respiro europeo che non avesse i piedi nel “botro” mediterraneo, non dovesse svolgere un ruolo preminente. Lo stesso Cattaneo dava al suo progetto una connotazione fortemente lombarda non negando di vedere nella borghesia settentrionale la sola classe imprenditoriale moderna in grado di assicurare lo sviluppo economico e civile del paese. Più volte fece capire di ritenere problematica l’unione di regioni troppo diverse e di temere che quelle più sviluppate potessero rimetterci qualcosa associandosi a quelle più povere e arretrate. Una grande federazione sarebbe stata senz’altro possibile se la Campania, la Sicilia, la Lucania avessero avuto lo stesso grado di sviluppo della Lombardia o della Liguria. Ma così non era. In queste condizioni nemmeno un forte assetto centralista avrebbe resistito a lungo. Uno stato unitario,che non tenesse conto delle differenze tra Nord e Sud,era apparso fantasioso e irreale anche a Napoleone III che aveva immaginato un assetto federale,il solo che si addicesse a un paese anomalo come l’Italia.Solo la monarchia sabauda aveva interesse a un’Italia unita unicamente per ragioni di prestigio e di potenza. Nessuno ricordava le parole di Gian Domenico Romagnosi:”Le piccole teste sono soggiogate dall’idea dell’unità. L’uniformità poi è comoda perché dispensa dal pensare. I gretti ammiratori d’un aspetto solo ben ordinato crederebbero di peccare soggiungendo varietà”. Dimenticato l’insegnamento di Montesquieu che individuava nella pluralità e nell’equilibrio dei poteri la fonte della libertà.
Cattaneo non respingeva l’idea di una Nazione italiana, bensì il modo in cui essa si sarebbe realizzata: al disegno di fusione di tutti gli stati in uno solo opponeva l’idea di una libera federazione,”una promessa dell’uno per tutti e di tutti per uno”. Ma ai suoi tempi gli diedero del visionario; lo accusarono di volere “un’Italia in pillole”. Dall’esilio svizzero non si stancava di ammonire, ribadendo un concetto sempre di drammatica attualità in Italia: “Chi non apprezza la libertà,si rassegni a vivere servo”.