di SERGIO BIANHCINI – Anche in Israele, come ormai in tutto l’occidente, vediamo una conflittualità endemica e fronti opposti entrambi minoritari. Gli exit poll delle votazioni in Israele danno un contendente al 33/36 per cento e l’altro al 36/37 per cento.
Chiunque vinca vincerà ” per un pelo” e sulle spalle di una minoranza graverà la responsabilità della politica successiva con tutte le ovvie e immancabili difficoltà.
I capi politici e l’opinione pubblica sono da anni dilaniati sulla questione di quale identità debba avere lo stato di Israele. La fazione fino ad ora dominante è riuscita, nel luglio dello scorso anno, ad approvare una legge che definisce Israele come lo stato nazionale del popolo ebraico. Definizione carica di conseguenze politiche e giuridiche circa le relazioni con le minoranze e in primo luogo con gli arabi residenti e con la lingua araba. Tutte conseguenze chiaramente contrarie allo schema opposto che vede Israele come luogo, anzi esempio, di una libera convivenza di etnie, valori e diritti cosmopoliti.
E così ancora una volta il dilemma della prevalenza ”per un pelo” tipica delle democrazie occidentali si ripresenta. E la crisi estrema di questa concezione si vede ormai quotidianamente negli USA, nel Regno Unito, in Francia, in Venezuela.
Putin ha recentemente argomentato questa evidenza dichiarando che in occidente prevalgono gli interessi di partito sugli interessi nazionali. Una spiegazione che per molti può sembrare macchiata di nazionalismo e sovranismo. Putin non ha esaminato l’architettura istituzionale della democrazia liberale e del suo modo di legiferare e governare. Cosa che invece ha tentato di fare sul piano culturale uno dei più ascoltati consiglieri di Xi Jin Ping con osservazioni molto interessanti a mio parere.
Sta di fatto che la crisi della democrazia liberale e del mondialismo a guida unica è ormai evidente.
Personalmente ho proposto una modifica del sistema elettorale che funge ancora come esperimento mentale più che proposta vera. E cioè creare un sistema dove le leggi ordinarie siano approvate dal 60% dei parlamentari e quelle costituzionali dall’80%.
Ciò obbligherebbe le due principali frazioni che si formano in ogni realtà nazionale endemicamente lacerata, con percentuali rispettive intorno al 30% delle due principali fazioni e con un 30% di astenuti, a trovare forzosamente un accordo considerando come normali le alleanze “incoerenti” come sono attualmente quella tedesca e quella italiana.
Incoerenti rispetto allo schema classico pregiudiziale del destra sinistra ma emergenti ogni qualvolta la governabilità diventi un problema drammatico e cioè oggi quasi sempre.
In Italia abbiamo visto questa inevitabilità, stridente per i coerentisti, nelle vicende tormentate del compromesso storico negli anni 70 -80 e oggi con la convergenza lega, una lega mutante, e cinque stelle a loro volta mutanti. Più profondamente la vediamo nel modello organizzativo della chiesa cattolica, vera spina dorsale della repubblica, che dichiara apertamente di non praticare la democrazia bensì la comunione.
Di fatto, seppure con modalità “spastiche”, la governabilità si impone inevitabilmente.
E, miracolosamente, il centro del discorso diventa il famoso programma quinquennale tipico delle vecchie “democrazie popolari” fallite quasi ovunque salvo in Asia. Non è poco.
Non si può pensare di mettere queste consapevolezze alla base di una architettura e di procedure istituzionali realistiche ed armoniose che tutte le procedure maggioritarie non riescono a realizzare?