Le Regioni non sono tutte uguali, tranne che per la sinistra

MIGLIO-BOSSI

di CHIARA BATTISTONI – Mentre scartabellavo tra i libri alla ricerca di qualche documento storico che riper-corresse le tappe della riforma costituzionale in Italia, l’attenzio-ne è stata attratta da un un inter-vento del professor Gianfranco Miglio al Senato. Era il 23 maggio 1996 e al Senato era in corso la discussione sulla dichiarazione di voto di fiducia al Governo Prodi. Diceva Miglio «Quando si tratta, del resto, di entra-re nella sostanza delle grandi riforme, lei si sottrae: e sostiene di non voler “entrare nel merito”, perché qui c’è un patto da riscrivere, insieme con tutti i connazionali e con tutti i partiti. Indica dunque per le riforme la via parlamentare. Questa però, mi consenta, signor Presidente designato, è proprio la via
sbagliata: battere la strada propriamente parlamentare – seguendo la via dell’Assemblea Costituente, sia quella di una bicamerale interna ai due rami del Parlamento – è profondamente errato. (…) Nello spirito dell’articolo 138
della Carta la via da battere è quella di istituire una commissione ristrettissima di maggioranza (a cui dovrebbero partecipare anche le parti parlamentari che ormai sono in campo e si sono contrapposte – come lei ha giustamente detto – ai due
schieramenti parlamentari principali) e far scrivere a essa un coerente progetto di riforma della struttura della Repubblica. Questo progetto va portato in Parlamento e in Parlamento va discusso con la più grande libertà. Quando il Parlamento avrà trovato una maggioranza su questo progetto e lo avrà approvato, allora, con una modesta modifica all’articolo 138, si potrà disporre l’accesso del progetto al referendum popolare. Infatti tutte le riforme costituzionali, in questo dopoguerra, sono state approvate con referendum popolare: è la sovranità dei cittadini che si deve esprimere quando si tratta di cambiare la Costituzione. Al contrario, interrogare e coinvolgere, previamente, tut-te le forze politiche presenti in Parlamento e
non provare la discussione su di un preciso progetto conduce all’improduttività e alle delusioni già sperimentate e quindi al fallimento del tentativo di cambiare il nostro sistema politico. Mettiamoci in testa che qui si tratta di cambiare la forma della Repubbli-ca, cioè di sostituire a una Repubblica parlamentare-centralizzata una Repubblica federale». (da: Speciale Gianfranco Miglio: un uomo libero – Quaderni Padani 37/38 Settembre -dicembre 2001, pagg. 159-160).
Sono passati 11 anni, il nuovo Titolo V è realtà, così come la Devoluzione, ma la Repubblica resta comunque parlamentare e centralizzata; e lo sarà ancor più se a prevalere sarà l’Unione, visto che il loro programma di governo 2006-2011 ricorda
che: «le istituzioni sono sempre più in con-flitto tra loro e piegate a fini egoistici. A questo si aggiunge una riforma costituzionale incoerente che lacera il Paese e contrappone i territo-ri con la cosiddetta Devolu-tion. L’interesse nazionale
viene affermato solo formal-mente, ma manca qualunque meccanismo che ne renda ef-fettiva la tutela. Una riforma, insomma, che non nasce da un patto costituzionale fra tutte le rappresentanze politi-che, com’è nella tradizione delle democrazie, ma da un accordo tra le sole componenti della maggioranza. Il risultato sarebbe un sistema con-traddittorio che produrrebbe il caos istituzionale». (da Per il bene dell’Italia, pag. 9).

Sembra proprio che l’ap-proccio della sinistra, in questo sì coerente con se stessa, non sia cambiato; ciò che il professor Miglio stigmatizzava come errore di metodo nel 1996 viene riproposto ta-le e quale a 10 anni di distanza, con l’aggravante che la storia recente ha dimostra-to la fondatezza delle critiche di Miglio. Senza un preciso progetto su cui confron-tarsi la concertazione di cui è infarcito il programma dell’Unione, non serve, porta al nulla, porta al caos. La democrazia, infatti, cresce e si alimenta di progetti e di teorie che la pratica e la partecipazione dei cittadini verificano, criticano e sovvertono, quando necessario. L’essenza del metodo scientifico insegnata da sir K. R. Popper è l’essenza della democrazia: ogni teoria proposta deve essere sottoposta a verifiche e critiche; il voto e il dialogo sono gli strumenti pacifici per rovesciare l’ordine costituito. Senza un progetto o una teoria da smontare, per verificarne l’intrinseca efficacia e stabilità non c’è confronto, non c’è dialogo; c’è solo il nulla che genera altro vuoto. Altro che caos generato dalla Devoluzione! Sì dà il caso che non esista patto senza progetto da condividere. E sì dà il caso che compito precipuo della maggioranza sia proprio quello di proporre progetti, su cui poi l’opposizione interviene per esercitare la sua azione di controllo e verifica. Tra le pagine di Per il bene dell’Italia aleggia la presenza, sinistra e sinistrorsa, di quell’uguaglianza di risultati, tipica degli statalisti, di cui tante volte abbiamo scritto. Tutti uguali alla meta: è così che ci vogliono, come se la libera intrapresa, il merito del singolo non avessero alcuna importanza. Visto che siamo ancora permeati da spirito olimpico, usiamo una metafora sportiva. È come se fossimo tutti impegnati in una gara di sci da fondo; per i liberisti siamo tutti uguali alla partenza della gara, ognu-no con il proprio bagaglio di allenamento e capacità tecnica, pronti a giocarsi la competizione; per gli statalisti/centralisti siamo tutti uguali al traguardo, arriviamo tutti insieme, non c’è classifica perché a tutti è riservato lo stesso piazzamento, in barba al merito individuale.

Applicate questa metafora al Federalismo. Per il Federalismo in salsa statalista tutte le regioni non possono che essere uguali al traguardo; ecco allora la retorica delle ric-chezze da drenare dalle zone che più han-no, verso quelle che meno hanno, rendendo vano qualsiasi sforzo per migliorare la pro-pria condizione (tanto poi tutto quello che è in più finisce sempre e comunque al centro). Per il federalismo in salsa libertista, invece, le regioni sono tutte uguali alla partenza; hanno tutte le medesime opportunità e sta-rà poi alle singole specificità sviluppare i modelli più efficaci, sul piano sociale ed economico, in funzione delle proprie capa-cità. Il federalismo “solidale” di cui parla la sinistra finisce per trasformarsi in assisten-zialismo, quando noi invece abbiamo bisogno di un federalismo competitivo, che faccia emergere l’efficienza dei modelli, che faccia sì che il patto coi cittadini sia un patto davvero trasparente, davvero verificabile, davvero controllabile. Solo così il governo del popolo è davvero tale.

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