di RICCARDO POZZI – Nella mia irrilevante vita lavorativa ho sempre lavorato in proprio, ho cercato di qualificarmi, di aggiornarmi tecnologicamente, ho assunto lavoratrici e lavoratori, stranieri e nazionali. Ho ricevuto cause sindacali, insoluti dai clienti, pagato valanghe di tasse e sperimentato rischio d’impresa a profusione.
Tuttavia continuo a conservare un’istintiva diffidenza per la cosiddetta autoregolamentazione del mercato, quella per intenderci promossa e invocata da chi dice che in Italia il liberismo è il vero assente e la libertà di impresa la più sacrificata d’Europa. La diffidenza è aumentata in questi giorni quando ho sentito materializzarsi la protesta in Confindustria contro le annunciate misure a scoraggiare le delocalizzazioni.
La risposta non è ovviamente la rigidità che vorrebbe imporre il sindacato ma ormai anche le ricette di flessibilità spinta hanno mostrato la loro intrinseca debolezza.
Abbiamo detto che i nostri giovani sono fannulloni perché, appena possono, rifiutano posti da 700 euro al mese, continuiamo ad affermare che gli immigrati ci servono per coprire i lavori-che-gli-italiani-non-vogliono-più-fare, abbiamo eretto monumenti alla precarietà lavorativa pensando che fossero il vero deterrente alla fuga della produzione e dei capitali investiti per produrre. Niente da fare.
Eppure, come si chiedono attoniti gli speaker radiofonici e televisivi, il lavoro ci sarebbe ma mancano persone a coprire quei ruoli, contemporaneamente abbiamo milioni di disoccupati e la metà dei giovani a spasso. C’è qualcosa che non torna.
E’ la celebre teoria del Grande Cetriolo, che proverò a esporre nel modo più semplice possibile.
Negli anni settanta un operaio di bassa qualifica riusciva a mantenere la famiglia, non nella ricchezza ma nella dignità. Dopo cinquant’anni la produttività di quell’operaio è aumentata di trenta volte, cioè l’operaio di oggi produce trenta volte di più del collega degli anni “70, ma la sua paga non gli consente altro che pagare a malapena le bollette e mangiare. Dove sarà finita la differenza? Ecco, questo viene definito accademicamente “Il Grande Cetriolo”.
Lo stesso che vola basso quando nelle prime file di Confindustria ci dicono che le delocalizzazioni servono per mantenere i posti di lavoro in Italia, quello che aleggia minaccioso nell’aria dei nuovi lavori dal nome inglese, riders, call center, voucher.
Quello che molti giovani hanno già sperimentato quando, per certe mansioni, non vengono nemmeno considerati, perché gli stranieri accettano condizioni peggiori senza fiatare. Il veterocomunismo dei nostri sindacati ha le sue colpe e niente lo solleverà da questa responsabilità storica, ma quando sentiamo le illuminazioni liberiste con l’attico nella ZTL che pontificano dal televisore, dobbiamo ricordarci dell’operaio degli anni settanta e della sua paga più alta di quella di oggi. Il grande cetriolo vola, ma basso.