di NERIO DE CARLO – Il primo approccio con la la questione della lingua fu traumatico. Alcuni giovani si sfidavano alla “morra” nell’osteria. Il gioco consisteva nell’indovinare con movenze gestuali e verbali la somma dei numeri simultaneamente mostrati con le mani dai giocatori: “dò”, “zhìncue”, “sìe”….-
Un gendarme del regime schiaffeggiò improvvisamente un giocatore poiché un manifesto alla parete imponeva l’uso della lingua nazionale e il villico usava la parlata locale. La prima doveva essere la categoria di riferimento del vedere il mondo imposta dal sistema anche lontano dall’ombra del Colosseo o del Vesuvio.
L’istintiva riflessione, dopo aver deprecato sia la violenza sia la mancanza di ribellione dei presenti, fu che lingua locale e lingua nazionale fossero categorie diverse. Certo, l’antico e radicato gergo materno – extrapeninsulare – aveva suoni come il “dh”, il “th”, il “zh” e desinenze prive di vocali …. che l’idioma nazionale – antartico – non conosceva. Quest’ultimo sfoggiava coniugazioni come il passato remoto, il futuro nonché consonanti doppie, che localmente non ricorrevano. Per non parlare poi dell’inconfondibile pronuncia, delle particolari inflessioni e non solo.
Una seconda considerazione riguardava l’accanimento contro la lingua del luogo. Quella ostinazione non sarebbe giustificata se non fossero evidenti sostanziali differenze.
Col passare del tempo giunsero altre novità linguistiche. Alcune ragazze che erano andate a lavorare nella capitale ritornavano in paese e non parlavano più la lingua materna. I rasri giovani che studiavano in seminario trascorrevano le vacanze a casa, ma non usavano più la parlata locale. C’erano casi paradossali. Una novizia che doveva ritornare in convento in treno aveva chiesto nella biglietteria “quando partisse la stazione”. Non si comprendeva se fosse stupidità o cattivo gusto.
Dopo qualche tempo le mamme, le schiocchine, cominciarono ostentatamente a insegnare ai propri piccoli la lingua che non poteva propriamente dirsi materna. Ostentazione fallita oppure trasformismo opportunista?
Glottologi e linguisti assicuravano intanto che la lingua nazionale, ancorché estranea, derivava dal latino (che tra l’altro era privo di articoli) e che anche le varie parlate locali (invece con tanto di articoli) avevano quella genesi. Quindi, tanto valeva ritornare alle origini!- Perché mai si dimenticava che le superficiali somiglianze tra le lingue romanze conseguivano da un precedente substrato indoeuropeo con qualche striatura alemanniche, dal quale proveniva anche il collettore di civiltà e di culture che fu il latino stesso? La primogenitura del latino è pertanto un pretesto. Inoltre questo idioma non è nemmeno più la lingua della Chiesa. Qualche motivo deve pur esserci. Le lingue codiddette romanze sono in realtà lettere di un unico alfabeto.
La scuola era plagiata dal sistema. Tralasciava di insegnare che la lingua è dentro di noi e noi siamo tra le sue braccia, come sostenne Mario Luzi. Non sapeva che la lingua verbale entra in noi naturalmente fin dalla nascita e diventa lo strumemto ineguagliabile per la nostra crescita culturale, come affermò il Presidente dell’Accademia della Crusca Francesco Sabatini? Gli insegnanti non erano al corrente che anche la nostra parlata locale possedeva originalità della genesi storica, secolare tradizione letteraria, coinè linguistica, coscienza di parlare una lingua ed esistenza di un corpo sociale che la considerava e la reputa espressione di cultura? No, non lo sapevano. Ancora meno ne percepivano l’originalità grammaticale, le diversità nella fonetica, nella morfologia, nel lessico.
Alle insistenze scolastiche e di costume sulla conformità linguistica centralistica l’apprendimento degli scolari rispose in maniera disastrosa. Sotto i portici cittadini si sentivano rimproveri materni ai bambini sul modo di vestirsi del tipo “Non ti accorgi che hai messo su il davanti per il didietro?”- Nelle aule andava anche peggio. In primavera c’era in paese la coltura dei bachi da seta, chiamati “cavalièr” perché nascevano il giorno di S. Giorgio, il cavaliere per eccellenza.- Le larve che per vari motivi non avrebbero prodotto seta diventavano gialle, venivano chiamate “vacche” (vocabolo peralktro usato anche per altre attribuzioni) e subito rimosse. In un compito in classe uno scolaro scrisse:”Tutti i cavalieri della mia mamma sono andati a puttane”.
Poi ci fu l’effetto spianatore della televisione. A Treviso era stata proibita in una certa domenica la circolazione automobilistica. Una graziosa giornalista televisiva intervistò un volonteroso cittadino chiedendogli se gli fosse piaciuta l’iniziativa e questi rispose entusiasticamente “piacissimo!”. Controllare il TG1 del 23 gennaio 20 gennaio 2005 per credere!
Non è raro sentire sotto i portici di Oderzo frasi di vacanzieri che promettono: “Ti manderò saluti dalle pernici del Monte Cavallo”.- A Conegliano, sempre sotto i portici, non mancano discorsi come “Apriamo una parentesi”.- In qualche trattoria di Padova si viene a sapere che “Le zucchine piaccione trafelate”.- Il telefono cellulare non è da meno se si ascolta indiscretamente :”Tu scendi, io parcheggio”.- Ma proprio a nessuno viene qualche dubbio sulla disastrosa conoscenza, sulla incoscienza o sulla goffaggine di certi Veneti quando parlano italiese in preda a debolezza identitaria e orgogliosi delle proprie ridicole prodezze linguistiche ?
E’ innegabile che i danni inflitti al inguaggio nativo e la contestuale remota proibizione dello stesso siano costanti. Con la sommersione linguistica è’ stata salita faticosamente una gradinata sulle ginocchia. Con il risveglio sarà ora arduo discenderla sempre sulle ginocchia, come ci si può convincere osservando un’altra scala -ancorché santa- vicino a S. Giovanni in Laterano.
La Legge n. 28 del 13.12.2016 emanata dal Consiglio Regionale Veneto, rappresenta l’inizio di un iter con indubbie difficoltà. I regolamenti di attuazione saranno ancora più ardui. Un po’ di malizia non guasterebbe, anche se subito tacciata di razzismo o quant’altro.
“A pensar male si commette peccato, ma si indovina”, è stato autorevolmente sostenuto. Ebbene, la norma regionale di cui sopra è spontanea emanazione del Consiglio Regionale: con il pensiero la si può perfino immaginare come simbolica riparazione dello schiaffo in osteria sopra citato.
La mancata interdizione della Legge n. 28/2016 è tuttavia sospetta. Non sarà che, nonostante le apparenze, il bilinguismo veneto potrà trasformarsi da disobbedienza a certi precetti in scaltro pretesto didattico per nuovi decaffeinamenti e discriminazioni nei confronti di candidati del gruppo linguistico di specie?
Nel compimento dell’iter procedurale sarà imprescindibile la conoscenza della lingua veneta. Necessiteranno quindi specifiche competenze e motivazioni basate sulla stanzialità e sul riconoscimento retributivo. Qui potrebbero nascondersi le insidie inaccettabili benchè dialetticamente ineccepibili. Qui bisogna provvedere per una seppur simbolica riparazione della mancata reazione al manrovescio da osteria. Alcuni precedenti in altra Regione bilingue, dove la vigilanza sarebbe alta ancorché non sufficiente, inducono alla prudenza. Se non ci si vuole esporre a possibile speculazione, bisognerà quindi rivalutare le necessarie cognizioni soprattutto in candidati motivati dall’appartenenza.
Un proverbio dice che se son cose fioriranno, o qualcosa del genere.