di GIUSEPPE REGUZZONI – No, davvero non sono gli “Spartani”. Guardate quell’immagine, vagamente scopiazzata dall’iconografia sovietica, con il palco del Congresso che elesse Bobo segretario della Lega Nord e, a piramide, i colonnelli, tutti intorno, con sottolineatura cromatica del verde (non quello dell’indipendenza, ma quello delle nostre tasche). Non ha avuto una grande fantasia chi allora si occupò di comunicazione per la stagione dei Barbari Sognanti. Guardate le loro espressioni guerriere … Da quando sugli schermi è uscito “300”, il fortunato film di Snyder sull’epopea spartana alle Termopili, Sparta è entrata nell’immaginario collettivo di indipendentisti e autonomisti di varia natura. «Questa è Sparta», grida Leonida, uno dei re degli Spartani (per la cronaca: erano due, perché così voleva la Costituzione di Licurgo), mentre con un calcio getta nel pozzo della morte l’inviato del Gran Re Serse, che aveva appena offeso la sua signora e la sua Città.
Immagini buone per essere riprese su Facebook e per l’eroismo da tastiera, perché non ci vuole un’intelligenza pari all’eroismo degli Spartiati per capire che la Padania, oggi, è ben lontana dall’epopea patriottica di quelle immagini, le ultime che celebrano un mito che ha affascinato generazioni di rivoluzionari. Chi sarebbe il Leonida della Padania? L’onorevole Salvini?
Suvvia, evitiamo, sinché possibile, il senso del ridicolo, e accontentiamoci di un paio di semplici considerazioni sulla Costituzione spartana, quella vera, scritta, come volevano gli Antichi, col sangue e non con la carta.
C’erano tre classi sociali: gli Iloti, quasi schiavi cui toccavano il lavoro della terra e i compiti più umili, i Perieci, commercianti e artigiani (oggi diremmo piccoli e medi imprenditori), cui toccava arricchire lo Stato con i loro profitti, e c’erano gli Spartiati, classe e casta guerriere, educata sin dalla più tenera infanzia alla guerra e alla difesa della patria. Sparta, unica tra le città stato greche, non aveva mura: bastava il coraggio e la preparazione dei suoi guerrieri, che vivevano in comune, avendo diviso ogni bene alla pari tra tutti e rientrando nelle famiglie il tempo strettamente necessario per mettere al mondo altri guerrieri.
«Torna con questo scudo o su questo scudo – cioè morto -, ma non senza questo scudo – cioè da fuggiasco», gridavano le madri spartane ai loro figli in partenza per la guerra. Mito e storia, leggenda e verità, fascino e richiamo. Perché se c’è un richiamo che vale per noi è che a Sparta, a modo suo, ogni classe dava qualcosa alla comunità cittadina. Proprio come oggi, proprio come in Padania, ma all’inverso: una classe di iloti, addormentata dai campionati di calcio e dai saldi di stagione, una classe di contribuenti sempre più spremuta e una classe di pseudo-spartiati che ci mangia sopra, senza dignità e pudore alcuno. E che è disposta a un solo sacrificio: il nostro, pur di mantenere le cadreghe e le prebende cui sono arrivati all’ombra di chi li scelse, e non per merito.
Ora sono qui, a cercare consensi. Non si sa se per le elezioni europee o per il congresso di quello che fu, forse, un movimento indipendentista e che si avvia a essere una costola secondaria di un centrodestra in disintegrazione. Ultimo arrivato (in ritardo, lo ha scritto proprio lui), l’onorevole europeo Salvini, che chiede udienza a questo quotidiano on line. Lo faccio anch’io, da ospite, da comune mortale, da uno dei tanti, che non detta né leggi né condizioni.
Salvini non è credibile perché non sono credibili le promesse elettorali fatte a ridosso delle elezioni: uso tipicamente romano. Non è credibile perché ha dimostrato in questi anni una totale disaffezione alla situazione reale in cui si dibattono le nostre terre e i nostri giovani. La valanga di pomodori con cui i lettori hanno salutato il suo intervento la dice lunga. Quanto a me, faccio- anzi, ripeto – un solo esempio: meno di due anni fa, quando ancora avevo delle ore presso l’Ufficio Scolastico per la Lombardia lo contattai, tramite la Sua segreteria (come tutti i “Romani” è inarrivabile ai comuni mortali) per una serie di questioni serie che riguardavano la scuola lombarda.
Era un grido di allarme, forse anche di dolore. Lo spettacolo era ed è triste. Erano in gioco, come poi si dimostrò vero, transumanze di docenti e dirigenti dal Sud nella nostra regione, milioni di euro che si sarebbero potuti risparmiare in affitti a carico di province e regione (gli enti locali pagano per l’edilizia scolastica), concorsi più o meno tarocchi e molto altro. Sua Altezza non rispose nemmeno, malgrado l’insistenza e l’urgenza, ma pare abbia detto a qualcuno “tanto quelli non ci votano”. Da fine analista politico, parlava di quattro/cinque milioni di lombardi toccati dal problema scuola (insegnanti, alunni, famiglie). Un genio. Non è solo, peraltro. Per scremare e filtrare, ci sarebbe un legge semplicissima e pratica, senza badare alle professioni di fede verbali: due mandati e non più di due, poi si torni a lavorare (se mai si è lavorato) e a riprendere il contatto con la realtà (che non è il Palazzo).
Da tempo ho smesso di illudermi che da quelle parti – quelle delle cadreghe e dei posti, degli umma umma e degli incarichi agli amici degli amici – possa arrivare qualche speranza per noi e per la nostra povera terra. È un capitolo che deve essere chiuso per poter guardare avanti. Sua Altezza, chiunque sia, è il passato. Si goda, si godano, le prebende milionarie accumulate in anni come membri della Casta. E sparisca/spariscano.