di Giuseppe Olivieri -I quotidiani italiani riportano che nelle ore scorse i russi hanno bombardato l’Istituto di fisica e tecnologia di Kharkov, che ospita un impianto nucleare.
E’ sufficiente collegarsi con il sito web dell’Agenzia di stampa russa, Tass, per leggere le parole pronunciate dal Ministro della Difesa russo che, al contrario, accusa le Forze di Sicurezza Ucraine di voler far esplodere il medesimo reattore nucleare sperimentale per poi incolpare i russi.
Questo è uno dei tanti esempi di notizie contraddittorie che concorrono a formare un’opinione pubblica e che spesso sono in contrasto con la verità dei fatti: i russi hanno le loro posizioni, spesso in antitesi con quelle degli ucraini, a loro volta non sempre sovrapponibili a quelle europee e statunitensi.
L’unica certezza agli occhi del mondo intero è l’immane sofferenza a cui la popolazione civile è sottoposta per interessi non sempre chiari ed identificabili.
Dovremmo chiederci a cosa servano trattati e conferenze, se poi gli impegni assunti, scritti o verbali, risultano sistematicamente disattesi.
L’attuale crisi in Ucraina poteva forse essere evitata se l’“Ordine Internazionale”, quello a cui fa riferimento anche Mario Draghi nei suoi discorsi, non avesse dimostrato scarsa attenzione agli scenari che dalla caduta del Muro di Berlino in poi si sono aperti e sviluppati.
Mentre nel 1990 il processo di riunificazione tedesca era in fase di realizzazione, il Segretario generale Nato, Manfred Wörner, e con lui tutti i leader occidentali avevano promesso garanzie che mai l’esercito dell’Alleanza Atlantica sarebbe stato schierato al di fuori dei confini tedeschi.
L’impegno è rimasto disatteso e nel corso degli anni, tra il 2004 e il 2020, la Nato è passata da 16 a 30 Paesi membri, minacciando non solo idealmente la Russia.
L’Ucraina è tornata ad essere indipendente nel 1991, con il crollo dell’Unione Sovietica, dopo la sua precedente esperienza di autogoverno nei lontani anni del 1917-22. La Rivoluzione Arancione nel 2004 e la rivolta del movimento EuroMaidan nel 2013 hanno poi affermato il desiderio della maggioranza della popolazione dell’Ucraina centro-occidentale di stringere rapporti con l’Unione Europea.
Le due repubbliche filo-russe di Donetsk e Lugansk, nell’area del Donbass, la parte orientale dell’Ucraina, al contrario si sono autoproclamate indipendenti, condizione subito riconosciuta dalla confinante Russia. Da quel momento una guerra civile dimenticata dall’opinione pubblica occidentale ha provocato nel Donbass circa 14mila morti dilaniando il tessuto sociale di quella zona.
Il desiderio di autogoverno della maggioranza delle popolazioni di queste due regioni si è tradotta anche nelle rispettive elezioni generali del 2018, il cui esito non è però mai stato riconosciuto dalla comunità internazionale.
E proprio questo rappresenta il punto cruciale: il concetto di nazione e la volontà popolare come discriminanti prerogative per la costituzione di nuove istituzioni statuali.
L’invasione militare dell’Ucraina da parte di Putin e delle milizie russe rappresenta un atto inaccettabile non solo perché lo stato ucraino è stato riconosciuto internazionalmente, ma soprattutto perché rappresenta un attacco alla scelta popolare che aveva condotto alla sua indipendenza nel 1991.
Similmente, il riconoscimento delle Repubbliche Popolari di Lugansk e di Donetsk attraverso le forme più idonee, rappresenterebbe non solo un passo in avanti verso la fine del conflitto in corso, ma anche la conseguenza dell’applicazione del principio di autodeterminazione dei popoli, alla base della Conferenza di Helsinki del 1975, altro trattato approvato e troppo spesso disatteso.
La ferma condanna dell’azione militare ai danni di uno stato indipendente come l’Ucraina, l’ammissione dell’errore commesso nel relegare nell’oblio la guerra civile nel Donbass e il riconoscimento della volontà popolare come elemento imprescindibile per la formazione di nuovi stati rappresentano elementi fondamentali per il processo di pace che spesso con ipocrisia sosteniamo di voler realizzare.