Le ultime elezioni in Catalogna sono state decisive non solo per la storia della Catalogna e della Spagna, ma per le sorti della stessa Unione Europea. Ai primi di novembre di due anni fa la Catalogna presentò il proprio progetto di acquisizione di indipendenza dallo stato spagnolo. Contestualmente, venne prodotta anche un’interrogazione circa i futuri rapporti tra la Catalogna indipendente e l’Unione Europea. L’esito elettorale ha dato il via ai processi per arrivare al referendum sull’indipendenza, per quanto questo sia proibito dalla Costituzione spagnola. Nel caso, probabilissimo, di una vittoria che porti alla dichiarazione di indipendenza, la Catalogna si troverà a dover stabilire quali debbano esseri i propri rapporti con l’Unione Europea. Artur Mas, attuale “governatore” catalano e segretario generale della Convergència Democràtica de Catalunya, ha dichiarato che la Catalogna indipendente resterà parte dell’Unione Europea, stabilendo un interessante parallelo con quanto sta avvenendo anche in Scozia e nelle Fiandre. In realtà, né nelle Fiandre né, tanto meno, in Scozia l’attuale Unione Europea gode di particolati simpatie. Così intesa, la sua è stata una risposta diplomatica, volutamente ambigua, alle voci diverse e discordanti che arrivano da Bruxelles. Gli Eurocrati – che per essere tali non hanno bisogno del voto popolare – sembrano ribadire la difesa dell’unità nazionale, con qualche personaggio influente che arriva persino a sottolineare che qualora la Catalogna secedesse dalla Spagna, dovrebbe ripresentare la domanda di adesione all’UE e, in ogni caso, rinegoziarne i termini.
È stato lo stesso premier spagnolo, a ricordare che il Trattato dell’Unione Europea escluderebbe l’adesione automatica di una regione separatista e separata da uno Stato membro. Gli diedero subito dato man forte Josè Barroso e Olivier Bailly, ribadendo, a loro volta, che «se Barcellona se ne andasse dalla Spagna, rimarrebbe fuori dalla UE e dovrebbe rinegoziare la sua adesione».
L’Unione Europea, tutta fondata su un sistema di trattati interstatali e sulla preminenza dell’elemento finanziario-bancario su quello politico-identitario, teme una sorta di effetto a catena, che potrebbe condurre alla dissoluzione del suo attuale, artificioso equilibrio. È chiaro che l’Europa dei popoli e delle regioni è incompatibile con quella degli stati e delle banche. La Casta eurocratica teme, quindi, l’apertura di pericolose crepe nelle mura che ha eretto a difesa del proprio sistema di potere.
A questo punto, per le grandi regioni europee la partita in gioco non riguarda più solo la salvaguardia delle proprie identità nazionali, ma il senso stesso della democrazia e, coerentemente, la rivendicazione di indipendenza, anche economica, rispetto alla dittatura della finanza globale. In questo senso, se i vertici UE dovessero proseguire con la tattica dei pizzini ricattatori, la Catalogna potrebbe fare di necessità virtù. La rinegoziazione dei rapporti con l’UE metterebbe, di fatto, a disposizione di Barcellona un’arma temibile, molto più efficace nei confronti di Bruxelles che di Madrid. Nei confronti di quest’ultima, anche i Catalani più moderati sanno ormai benissimo che, una volta indipendenti, l’attuale residuo fiscale, la differenza tra quanto dato e quanto ricevuto, giocherebbe tutto a loro favore. Nei confronti di Bruxelles, anche se se ne parla poco, separandosi dalla Spagna e posta di fronte a un’Unione Europea recalcitrante, la Catalogna potrebbe rivendicare il proprio diritto a emettere moneta, sottraendosi così ai diktat del Club Bilderberg e della BCE che stanno mettendo in ginocchio l’Europa intera. In tal modo, la Catalogna potrebbe persino permettersi di svalutare la propria parte di debito pubblico, quella, cioè, che si troverebbe a ereditare dalla Spagna, e avviare un autentico rilancio economico. Forse è anche per questo che l’Unione Europea non si sta dimostrando affatto neutrale nei confronti della questione catalana.