Non ho simpatia alcuna per ciascuna delle formazioni politiche oggi presenti in Parlamento e, se un uragano le spazzerà, certo non mi straccerò le vesti. A prescindere da ciò che sarà dopo. Men di tutto, però, muove la mia commozione il funerale annunciato di quell’Italia dei Valori creata da Antonio Di Pietro sull’imperativo categorico di ripulire e moralizzare la vita politica. Per carità, nobili intenzioni, senonché per chi non è proprio a digiuno di cose della politica e anche volendo passar sopra allo spessore del personaggio, già suonava sibillino il nome della formazione: Italia dei Valori, si, ma… di quali valori? Guarda strano, per caso, è proprio avvicinandosi ad un partito che gli orizzonti politici e culturali – prima che i programmi e le idee concrete – hanno o dovrebbero avere un peso dirimente, una attrattività, una capacità di dividere ed aggregare, a seconda dei casi. Ma qui i “valori”, comunque dettati dal ‘capo’, si limitavano grosso modo all’imperativo categorico di cui sopra, un pastone fatto di demagogia e populismo che a parole avrebbe potuto andar bene a chiunque: a chi, infatti, non piacerebbe una politica più pulita e più morigerata di quella che da vari decenni tiranneggia l’Italia e ne dilapida la ricchezza? Tuttavia, è sufficiente questa bandiera per pretendere di acciuffare il voto degli elettori? Evidentemente, in qualche modo, lo è stata.
Anzi, il giochino ha funzionato per diversi anni, grazie all’indubbia abilità tattica del suo leader, sempre smaliziato e spregiudicato nella competizione mediatica, peraltro aiutato e niente affatto sminuito da quel suo italiano approssimativo e claudicante, da quel suo eloquio da piazza paesana che non dimenticava mai di inframmettere o concludersi con la frase strappapplausi e acchiappaconsensi. Facendo emergere quel tanto di contadino molisano (con tutto il sincero rispetto per il contadino molisano, s’intenda) che aveva e ha tuttora dentro di se e che la carriera di magistrato non aveva evidentemente eroso, con affettata bonomia e affermazioni azzeccate aveva portato tanti cittadini ad identificarsi in totale buona fede nella ‘sua’ battaglia.
Eppure, malgrado tutto, non è mai stato evidente dove e quale fosse la diversità dell’uomo politico Di Pietro: egli è stato per anni, anche grazie al Porcellum, uno dei pochi consiglieri della Società a responsabilità limitata denominata “Parlamento”, insieme ai signori Berlusconi, Bersani, Casini e Bossi (poi sostituito da Maroni). Nell’urlato contrasto alla politica dei politicanti, è riuscito a collezionare alcuni dei peggiori ‘figuri’ della c.d. Seconda Repubblica – gente che passerà agli annali della storia patria in un separato bestiario – dimostrando un insolito fiuto nella selezione dei cosiddetti “rappresentanti del popolo”.
Da sempre e fino al momento presente è, alla pari degli altri “leaders”, il padre-padrone del suo partito e, in ogni caso, da padre-padrone mai ha mancato di comportarsi. Custode dunque di una alterità tutta affermata ed autoreferenziale, ancorché gradualmente smentita dai fatti. Ed il problema sta tutto qui. Perché se vai a sollecitare l’attenzione e l’entusiasmo degli elettori su istanze così ingombranti e impegnative come la riforma e la moralizzazione della politica, delle due l’una: o sei sin da subito coi coglioni quadrati ed in grado di marcare nei fatti e nelle scelte di ogni giorno una radicale differenza da tutto-quello-che-sta-intorno-a-te oppure, presto o tardi – è la politica, bellezza -, troverai sulla tua strada qualcuno più bravo e/o più spregiudicato di te che ti fa le scarpe. Ecco, quel qualcuno è nel frattempo sopraggiunto e pare che ti abbia fatto il mazzo. Con una incertezza non da poco: è Beppe Grillo o Report?