di NICOLA BUSIN – In un mondo sempre più interconnesso la globalizzazione sembrava aver cancellato le realtà locali e imposto nei processi di sviluppo il primato delle singole aziende che si cimentano in una continua competizione senza confini, quindi senza precisi riferimenti al territorio.
In modo del tutto inaspettato la stessa globalizzazione ha però spinto un processo inverso che ha posto nuovamente al centro i territori. Le realtà locali quindi con l’indispensabile funzione di supporto ai processi di sviluppo e di fattore fondamentale di ricomposizione di quel senso di appartenenza identitaria a cui il globale non può certo rispondere. Due ragioni che amplificano nei fatti la riscoperta degli ambiti territoriali come nuova strategia per accrescere la competitività aperta a tutto il mondo. Una competitività che non deve fondarsi solo sull’intraprendenza della singola azienda, ma anche e soprattutto sulle caratteristiche e sulle capacità competitive dei territori e dei soggetti pubblici e privati che assistono i loro processi di modernizzazione.
Uno stato che pretenda di centralizzare tutti i processi di ammodernamento ha già fallito, soprattutto in Italia che ha una diversità territoriale difficilmente paragonabile con altri paesi al mondo.
Diviene quindi necessaria una vera e propria metamorfosi del cosiddetto regionalismo, con il complesso delle sua articolazioni istituzionali completamente differente dalla situazione odierna.
Un regionalismo fondato su disciplinati principi di responsabilità, di capacità di autogoverno, di attenzione agli interessi generali della propria comunità. Un regionalismo che punti ad una affidabilità nella capacità di spesa che tenga conto dei risultati ottenuti, in termini di buon governo e di ricchezza prodotta, senza dover chiedere costantemente interventi statali per sanare i deficit di bilancio. Un regionalismo che sia sorretto da una classe dirigente preparata e responsabilizzata, se del caso messa di fronte alle proprie incapacità pagando di tasca propria.
Un regionalismo che non preveda ulteriormente i cosiddetti tagli lineari che di fatto premiano chi spreca il denaro pubblico e penalizzano fortemente le realtà locali virtuose, costrette a tirare la cinghia per assurdi e ingiusti calcoli di bilancio governativo centrale.
La neo tendenza accentratrice del potere a Roma appare quindi del tutto perdente e pericolosa perchè di fatto toglie la responsabilità di gestione locale che è quella maggiormente sentita e controllata dalle popolazioni locali anche se non allo stesso modo in tutte le aree della penisola.
Se poi si considera che in Italia più che di regionalismo si può parlare di realtà territoriali in cui sono presenti distinti popoli come nel caso del popolo Veneto, che ha specifiche caratteristiche vuoi storiche vuoi culturali vuoi economiche, il desiderio di accentrare appare un atteggiamento del tutto liberticida.
In uno stato così variegato come quello italiano per sopravvivere diventa indispensabile premiare le realtà territoriali virtuose e prenderle da esempio nel processo di modernizzazione che potrà avvenire solo responsabilizzando la classe dirigente locale. Tenuto conto che i sindaci e i presidenti delle regioni sono i primi responsabili, oltre naturalmente ai funzionari pubblici, la vera sfida sarà quella di avere delle regole condivise che non costringano una parte della popolazione, di famiglie e cittadini, a dover lavorare per mantenere un parassitismo del posto di lavoro pubblico superfluo che i freddi dati statistici ci consegnano. I miliardi buttati in questo modo alla fine impoveriscono anche quelle realtà che ne traggono vantaggio perchè abituano a non essere competitivi e a non confrontarsi con il mondo globalizzato, in un processo irreversibile di degrado economico e sociale.