di CARLOTTA BEVILACQUA – In una raccolta di racconti brevi dal titolo “Senza colpa” (Ed. Sensoinverso 2015) il mantovano Riccardo Pozzi, del quale abbiamo recentemente suggerito l’ultimo romanzo “La finestra di Polentonia” (http://www.lindipendenzanuova.com/la-finestra-di-polentonia-raccontata-dal-mantovano-pozzi/), propone una storia che parla di indipendenza e autonomia con tono leggero e simbolico, metaforico e garbato.
E’ la vicenda di un villaggio che scompare in modo inspiegabile, ma i frutti del lavoro dei suoi abitanti appaiono ogni mattina a disposizione della restante cittadinanza. La storia si dipana sopra le righe in modo surreale, approfondendo le conseguenze emotive e morali di quella assurda sparizione, ma soprattutto analizzando i piccoli meccanismi mentali che leniscono le coscienze sedate di una società in stato eticamente comatoso. Mentre le sorti sembrano cementarsi nel tempo, il villaggio e le sue persone riappaiono…
“Il paese invisibile” è un racconto breve che utilizza la leggerezza della narrazione irreale per svelare l’ipocrisia che ammanta le nostre vite concrete, denunciando, attraverso il paradigma, il dirupo in cui abbiamo scaraventato la nostra storia recente. Perché questa surreale novella parla di noi e del reale motivo per cui siamo inchiodati da secoli all’immobilità politica. Lo fa in modo delicato e scevro da qualunque pomposità letteraria, senza indulgenze né sconti ideologici.
Pubblicato nel dicembre 2015 da Sensoinverso edizioni di Ravenna (60pg 11 Euro) è disponibile solo in formato cartaceo, ordinabile nelle librerie o contattando l’editore a edizionisensoinverso@hotmail.it .
Proponiamo di seguito un breve stralcio:
Da “Il paese invisibile” (“Senza colpa. Racconti brevi ”-2015-)
“…l’incredulità ben presto lasciò il posto allo sgomento di parenti e amici, che capirono di aver perso persone care e affetti. La notte trascorse illuminata dalle luci intermittenti delle camionette dei vigili del fuoco e delle forze dell’ordine, luci che cercavano nel nulla, barcollando nell’impossibile di quella assurda realtà.
L’alba arrivò rapidamente a illuminare centinaia di persone stremate, per aver girato nei dintorni tutta la notte. Una ricerca irreale, perché apparve subito chiaro che non aveva senso cercare nel vuoto centinaia di persone e abitazioni svanite nel nulla. Qualcuno, quando ormai la luce del giorno si era fatta più decisa, fece una scoperta ancora più inverosimile; là dove sorgevano le attività degli arresini, erano rimasti i frutti del lavoro delle giornate precedenti la scomparsa.
In luogo delle numerosissime fattorie si stagliavano, immobili e incredibili, centinaia di fusti di latte appena munto e piccoli cumuli di ortaggi, frutto di una raccolta appena effettuata. Al posto delle botteghe artigiane erano, lì in bellavista, manufatti e beni che la proverbiale produttività di quella gente aveva fabbricato nei giorni addietro.
In preda all’incredulità i pubblici ufficiali del comune di Bagnasio provvidero a far raccogliere beni e merci per condurli nei centri di raccolta e vendita, con la riserva mentale di far accreditare all’Amministrazione Comunale i proventi di quella vendita, moralmente appartenenti agli arresini e che a loro, quando fossero riapparsi, avrebbero dovuto essere restituiti. Lì per lì nessuno dette molto peso a quell’operazione; d’altra parte qualcuno doveva pur raccogliere tutto quel bendiddio prima che andasse a male.
Ciò che, però, lasciò tutti esterrefatti fu il vedere, anche nei giorni successivi, cumuli di cereali e frutta, migliaia di bidoni di latte appena munto e una moltitudine di oggetti appena costruiti, fermi là, al posto delle fattorie e delle botteghe di Arreso. Il Consiglio Comunale si riunì d’urgenza, coadiuvato dai comandanti delle forze dell’ordine, per valutare la situazione. Era come se, nonostante il paese non esistesse più, i suoi abitanti continuassero a produrre e i frutti del loro lavoro rimanessero là, incustoditi e a disposizione del resto della popolazione.
La situazione spiazzò il Sindaco e tutto il Consiglio ma già dalla settimana seguente la raccolta si svolse con molto meno imbarazzo: le squadre passarono per le fattorie o, meglio, per quel niente che le ricordava e ritirarono quantità industriali di prodotti finiti che prodigiosamente continuavano a riapparire la notte seguente. Nei mesi successivi la messe di prodotti arresini e la loro proficua vendita diventarono una consuetudine per le casse comunali. Tanto che le fattorie del resto del comune iniziarono a produrre notevolmente meno, visto che i prodotti raccolti alla ex-Arreso erano sufficienti a coprire il consumo locale e la vendita dell’eccedente rendeva perfettamente superfluo dannarsi l’anima per lavorare come si era fatto fino a quel momento.
Anzi, molti contadini e artigiani del comune si resero conto che il lavoro era, di fatto, diventato inutile. Tale era la mole di prodotti a fatica zero su cui potevano settimanalmente contare. Niente ammazza una comunità come la sensazione di inutilità del lavoro. Già un anno dopo nessuno ricordava più, o non voleva ricordare, la scomparsa di Arreso. Tutti si abbandonarono ad un ozio consapevole, consci delle sufficienti ricchezze che la raccolta dei beni del paese fantasma permetteva. Una vita dignitosa senza il dovere e il tedio del lavoro quotidiano.
Era diventato drammaticamente facile farsi tentare dal pensiero di dimenticarsi di Arreso, il paese invisibile, il cui lavoro era a disposizione di tutti. Dopo due anni Arreso scomparve dalle carte e dalle mappe del territorio comunale e cominciò ad insinuarsi tra la gente la tentazione di rimuoverlo anche dalla memoria…”