di RICCARDO POZZI – “Per adesso è solo uno spunto ma se troverò i fondi lo trasformerò in progetto e in seguito in idea…”. Così molti anni fa Woody Allen dipingeva l’immobilismo di certi ambienti radical-chic della Manhattan intellettuale. Inutile nascondercelo. Tutti quelli che hanno avuto a cuore l’indipendentismo del norditalia, l’autonomia e il sogno della Lega negli anni 90, anche quelli che se ne sono andati sbattendo la porta e hanno provato ad aderire a qualcuno dei partiti che formano il pulviscolare movimento autonomista padano, tutti quelli che sono sprofondati nella rabbia e nella disillusione vedendo la svolta nazionalista della Lega di Salvini, e anche molti che nella Lega sono rimasti ma si guardano in faccia perplessi e delusi da un partito che aveva l’unica vera proposta riformatrice dell’ultimo mezzo secolo e si è ridotto a parlare solo e in continuazione di immigrati e di no-eruo; tutti, ma proprio tutti, hanno sentito un tuffo al cuore, domenica 5 marzo al Cavalieri di Milano, nell’ascoltare il vecchio leone Umberto che parla leghista come non si sentiva da anni, ascoltando la carica che aveva il vecchio leader, che magari non argomentava in punta di fioretto ma metteva il piccone nel punto giusto per rompere la pietra. Tutti ci siamo ricordati com’era e come sarebbe potuto essere se le cose fossero andate diversamente, il tanfo e il coraggio di Vancimuglio, il chilometrico raduno sul grande fiume visto dall’elicottero, per la prima volta la paura negli occhi della politica ladra e vessatrice. Subito dopo l’emozione, però, arriva la ragione, la memoria. Allora ci ricordiamo che non si può dire che le cose si cambiano dal di dentro e quindi prima ci vuole il consenso e poi arrivano le riforme; no, questo non si può dire, perché la Lega il consenso l’ha avuto e dentro, nella stanza dei bottoni, c’è stata eccome e per anni, in ministeri chiave, Regioni, Federalismo, e anche al Ministero degli Interni. La Lega ha avuto un mandato forte dal proprio elettorato, è entrata nei gangli dello Stato ma non le è riuscito di cambiare niente. E allora ci viene in mente che forse ricominciare a fondare associazioni “Padania Libera” è oggettivamente un po’ come il surreale dialogo del film di Allen.
Il movimento ha avuto una forza che al nord la rendeva il secondo partito con tendenza al sorpasso, mandata a Roma dai suoi elettori, arrabbiati, vessati, derisi e sbeffeggiati, per rivoltare le istituzioni come un calzino. E invece molti il calzino l’hanno indossato ed era proprio della sua taglia, qualcuno il federalismo l’ha addirittura dimenticato, firmando provvedimenti che perpetuavano il sacco del nord.
Questa è la realtà con cui la buona volontà di costruire ponti e la costruttiva disponibilità politica di Bernardelli, Arrighini e Comencini deve fare i conti. E allora si capisce come, davanti a certe omissioni e a certe assenze possa ritornare un po’ di sconforto e la voglia di rovesciare le scarpe per fare uscire i macigni, di vomitare la coscienza e far uscire non i rospi ma i dinosauri che si sono dovuti ingoiare, viene voglia di urlare alla classe dirigente che avevamo messo alla testa di un sogno, che ci hanno ucciso l’anima e ci hanno reso duri e senza più fiducia.
Ma ha ragione Bernardelli, questo è probabilmente solo l’inizio, perché con il rancore non si va avanti e perché, comunque, dobbiamo presumere che nel cuore di tutti, anche di quelli a cui non crediamo più, ci sia lo stesso pulito, giusto, integro ideale. La sacrosanta battaglia di chi è stanco di farsi derubare dal Barbarossa di turno. Trasformare lo spunto in idea e l’idea in azione. Perché qualcosa di concreto è sempre possibile, anche quando tutto suggerisce il contrario e tutti ci dicono che, ormai, il sogno è finito.