di CHIARA BATTISTONI – Tutte le battaglie dei popoli verso l’indipendenza, accomunate da un solo, insopprimibile desiderio: essere liberi di scegliere il proprio futuro, liberi (e responsabili) di crescere i propri figli nella regione scelta, liberi di scegliere come e dove investire le proprie risorse, siano esse umane, economiche, finanziarie. In poche parole liberi di essere se stessi o, per usare il nostro motto a noi più caro, liberi di essere padroni a casa nostra.
Diceva Frèdèric Bastiat, liberale francese della prima metà del XIX secolo: «Non è perché gli uomini hanno emanato delle Leggi che la Personalità, la Libertà e la Proprietà esistono. Al contrario, è perché la Personalità, la Libertà e la Proprietà preesistono che gli uomini fanno le Leggi» (da La Legge, F. Bastiat, Leonardo Facco editore, pag. 39). Le parole di Bastiat ci portano, ancora una volta, al cuore delle nostre riflessioni: lo Stato, con tutto ciò che ne consegue, non può e non deve essere dogma di fede; prima di tutto, prima dello Stato, prima delle Leggi, c’è l’Uomo-Persona, con il suo diritto naturale di scegliere con chi stare, con chi condividere il proprio cammino di vita, come ci ha insegnato Gianfranco Miglio.
La maggioranza delle persone (in Italia, ma non solo; è sufficiente dare un’occhiata ai telegiornali o ai giornali spagnoli di questi giorni per rendersene conto) è spaventata da queste spinte cen-trifughe, teme la frammentazione e si aggrappa al dogma dell’unità. Ciò che sta vivendo la Spagna, alle prese con la Catalogna, è emblematico, impressiona, perché sta accadendo in un Paese che ha saputo far proprie molte di quelle istanze federaliste che da noi sono ancora una chimera.
Eppure, alla richiesta della Catalogna, gli spagnoli hanno vacillato, chiedendosi se non si stia minando il principio dell’uguaglianza e della solidarietà regionale. Eccoli, ci risiamo. I miti dell’uguaglianza e della solidarietà assurgono prontamente al rango di verità assoluta ogni volta che in discussione c’è l’autonomia di un popolo e di una regione; i confini permeabili della pratica quotidiana, sempre più laschi, si trasformano in muri da non valicare.
Possibile non capire che in un mondo sostanzialmente senza confini (lo ribadisce con forza, nel suo ultimo libro, proprio Kenichi Ohmae, colui che tra i primi individuò la crisi dello Stato-Nazione) ogni spinta autonomista è un segnale di vitalità, un’opportunità da cogliere per l’intera comunità?
Piccolo è libero, piccolo è efficiente, piccolo è agile e flessibile, per competere e sopravvivere in un mondo sempre più complesso e liquido. Non è un caso che alla testa dei Paesi più competitivi al mondo
(www. weforum. org ) vi sia stata la Finlandia, poco più di cinque milioni di abitanti, una classe dirigente politica che, come quella irlandese, ha saputo immaginare, progettare e realizzare un futuro(gli analisti aziendali direbbero che ha saputo costruire la vision), facendo scelte coraggiose che, di fatto, hanno anticipato i grandi cambiamenti in atto.
Proprio a questo dovrebbero servire i politici: costruire la vision e guidare il Paese alla sua realizzazione; ma costruire significa rischiare e rischiare significa essere responsabili delle scelte, qualunque ne sia l’esito, pronti cioè, come fece la signora Tatcher, a perdere il consenso o dimettersi. La storia di questo ultimo ventennio è costellata di piccoli Paesi capaci di straordinari successi (Finlandia docet); il mondo globalizzato, che ci piaccia o meno, è un mondo dove la dimensione conta meno di quanto si immagini (anche se da noi molti sostengono esattamente il contrario). Contano invece le relazioni, la capacità, cioè, di condividere conoscenza, dati, informazioni, processi produttivi con partner, interni o esterni (benchè, nel mondo globalizzato, ilconcetto di “dentro” e “fuori” abbia ben poca rilevanza), non certo la capacità di fare sistema (ovvero creare massa critica, unità di misura obsoleta nel mondo interconnesso e globalizzato).
Il futuro è nella capacità di fare rete, attivare cioè selettivamente rami e nodi per raggiungere un obiettivo comune; in una rete le dimensioni (nel senso di superficie) non contano più, conta il numero di nodi (la copertura), la capacità (larghezza di banda) di far passare la conoscenza. Leggete cosa scrive Kenichi Omahe nel suo ultimo libro: «Un altro elemento di competitività che è stato alterato dall’economia globale è l’approccio alle dimensioni. Esso derivava dalla tradizionale ossessione dello Stato-nazione, secondo cui, prima che un’impresa potesse avere successo a livello internazionale, doveva farsi le ossa in casa, doveva avere un solido mercato interno.
Così, il successo internazionale non era un affare alla portata di società provenienti da Stati con pochi abitanti: era un club riservato ai pezzi grossi. Per comprendere come questo non valga più non dobbiamo far altro che ritornare alla Finlandia e a Nokia: il mercato interno finlandese è limitato a soli cinque milioni, meno della popolazione di una grande città americana». (da Il prossimo scenario globale – Kenichi Ohmahe – Etas -pag. 90).La realtà è che non abbiamo ancora modelli per descrivere l’economia globale; ne vediamo i primi effetti e osserviamo con inequivocabile chiarezza che essere piccoli è un vantaggio, perché le dimensioni e la scala non contano più nel senso tradizionale.
Omahe ci dice che il futuro è degli Stati-regione: «Se dunque dobbiamo cercare i nuovi centri di crescita nel nostro mondo, possiamo facilmente individuarli nelle regioni: alcune di esse sono parti integranti dei vecchi Stati-nazione, altre oltrepassano i confini esistenti. (…) Alcuni Stati-nazione vecchio stile sono abbastanza fortunati e piccoli per poter agire come Stati-regione. Tra questi vi sono l’Irlanda, la Finlandia, la Danimarca, la Svezia e Singapore, sebbene dalla loro parte non giochino solo le dimensioni».
(da Il prossimo scenario globale – Kenichi Ohmae – Etas – pag. 108). I progressi scientifici e tecnologici hanno ribaltato (verificato e falsificato, direbbe sir K. Popper) la teoria che piccolo è sinonimo di provinciale, retrogrado, conservatore.
Oggi è vero esattamente il contrario. Ci ricorda ancora Ohmae: «Nel XXI secolo (…) è lo stesso Stato-nazione a essere ora antiprogressista e introspettivo e sono sempre più spesso le regioni dello Stato (sebbene, onestamente, non tutte) a essere palesemente in grado di avanzare, di lavorare e pensare all’interno di una prospettiva realmente globale e priva di confini. Esse non ragionano più in termini di Stati e di monoliti politici, ma piuttosto di Stati come insiemi di regioni. (…) Uno Stato-regione non è un’unità politica, bensì economica». (da Il prossimo scenario globale – Kenichi Ohmae – Etas – pag. 108-109).
Se vogliamo vivere in questo mondo abbiamo una sola strada da percorrere: non è quella del Sistema-Paese (che sposa la visione centralista dello Stato-nazione), è quella della rete di comuni, di regioni, di popoli. Abbiamo un disperato bisogno di Federalismo competitivo perché, come scrive ancora Ohmae, «la speranza insita nell’economia globale è legata al fatto che essa mette le regioni in condizioni di attrarre ricchezza dal resto del mondo piuttosto che rubarla ai vicini. Ciò impone che le regioni siano dotate di persone ben istruite e disciplinate, con un leader visionario in grado di comunicare con il resto del mondo» (da Il prossimo scenario globale – Kenichi Ohmae – Etas – pag. 296).
Senza Federalismo potremmo davvero non avere futuro. Gianfranco Miglio lo aveva capito 50 anni fa.