Il costo della guerra non lo pagano i politici. Rincari per 13 miliardi nel bilancio delle famiglie

L’aggressione russa all’Ucraina e’ costata alle famiglie italiane 13 miliardi di euro solo a tavola, a causa del caro prezzi scatenato dai rincari energetici e dalle tensioni internazionali legati al conflitto. E’ quanto emerge da una analisi della Coldiretti su dati Istat diffusa in occasione del primo anniversario dell’invasione voluta a Putin. Secondo l’analisi Coldiretti in cima alla classifica dei prodotti che hanno subito i maggiori rincari a gennaio 2023 rispetto all’anno precedente c’e’ lo zucchero con un +54 per cento davanti all’olio di semi (+46 per cento), soprattutto quello di girasole, che risente della guerra in Ucraina che e’ uno dei principali produttori, mentre al terzo posto c’e’ il riso con un +39 per cento. Seguono – spiega Coldiretti – il latte a lunga conservazione (+35 per cento), il burro in crescita del 34 per cento, la margarina (+28 per cento), i formaggi freschi (+28 per cento), il pane confezionato (+24 per cento), il latte fresco parzialmente scremato (+22 per cento) e le uova (+21 per cento).

Il Giappone continua ad aumentare gli stoccaggi di gas naturale liquefatto (Lng) dall’inizio del conflitto in Ucraina, per far fronte a eventuali rallentamenti degli approvvigionamenti di quella che a tutti gli effetti rimane la principale risorsa energetica del Paese. Secondo l’agenzia governativa Jogmec – che monitora gli spostamenti delle risorse e dei metalli anche in funzione della sicurezza economica, gli inventari di Lng in Giappone si assestavano a 5,9 milioni di tonnellate: un rialzo del 17,6% rispetto allo stesso periodo del 2021 e il più alto da quando sono iniziate le statistiche. Nove dei maggiori depositi del Paese hanno accresciuto le loro giacenze del 56% a 2,63 milioni di tonnellate al 19 febbraio di quest’anno in base ai più recenti dati della Natural Resources and Energy Agency (Anre): ben oltre la media degli ultimi cinque anni. Una delle ragioni dell’incremento delle scorte è il timore di una possibile revisione dell’accordo con la Russia sul progetto Sakhalin 2, a nord est dell’arcipelago, lo stesso dal quale la britannica Shell aveva annunciato l’uscita in marzo, che da solo contribuisce al 9% del fabbisogno nazionale di Lng, e il rischio che Mosca domandi condizioni considerate svantaggiose. Il Paese del Sol Levante, al pari dell’Italia, è privo di risorse naturali, dipende fortemente dalle importazioni di combustibili fossili per soddisfare il proprio fabbisogno energetico e il gas naturale liquefatto rappresenta attualmente circa il 35,5% del mix totale, la quota maggiore nell’anno fiscale 2021. Il gas naturale produce circa il 50% in meno di emissioni di anidride carbonica rispetto al carbone, e dal 20 al 30% in meno rispetto al petrolio, ed è visto come un’opzione preferita per ridurre le emissioni di gas serra. La produzione di energia nucleare non emette CO2 ma gran parte dei reattori rimangono ancora inattivi in Giappone, soggetti alle misure di sicurezza più stringenti introdotte dopo il disastro nucleare di Fukushima. Nel tentativo di ridurre i rischi geopolitici il Giappone e garantire una fornitura stabile Tokyo sta inoltre tentando di diversificare l’approvvigionamento di Lng. Oltre all’Oman – per spedizioni che dovrebbero iniziare dal 2025, la compagnia energetica Inpex ha recentemente firmato un accordo ventennale con la americana Venture Global per l’acquisto di un milione di tonnellate all’anno di gas proveniente dagli Stati Uniti, che nel frattempo sono diventati uno dei principali esportatori di Lng al mondo, malgrado il processo produttivo sia di gran lunga più costoso rispetto all’export di gas naturale via pipeline. Dietro il boom dello shale americano, dicono gli analisti, restano aperti gli interrogativi sull’impatto ambientale. L’estrazione del gas, ricavata in primo luogo con la tecnologia del fracking – la frantumazione idraulica delle rocce di scisto -, oltre a inquinare le falde acquifere, immette metano in atmosfera, aggravando l’effetto serra.

 

Le difficoltà si estendono dalle tavole alle campagne dove – sottolinea la Coldiretti – oltre un terzo delle aziende agricole (34%) si trova costretta in questo momento a lavorare in una condizione di reddito negativo mentre il 13% è addirittura in una situazione così critica da portare alla cessazione dell’attività secondo il Crea che evidenzia i forti aumenti dei costi di produzione. La pandemia prima e la guerra poi hanno dimostrato che la globalizzazione spinta ha fallito e servono rimedi immediati e un rilancio degli strumenti europei e nazionali che assicurino la sovranità alimentare, riducano la dipendenza dall’estero e garantiscono un giusto prezzo degli alimenti per produttori e consumatori”, afferma il presidente della Coldiretti Ettore Prandini, nel sottolineare l’esigenza di “raddoppiare da 5 a 10 miliardi le risorse destinate all’agroalimentare nel Piano nazionale di ripresa e resilienza spostando fondi da altri comparti per evitare di perdere i finanziamenti dell’Europa”. “Nell’ambito del Pnrr abbiamo presentato tra l’altro – precisa Prandini – progetti di filiera per investimenti dalla pasta alla carne, dal latte all’olio, dalla frutta alla verdura con più di 50 proposte e migliaia di agricoltori, allevatori, imprese di trasformazione, università e centri di ricerca coinvolti. Un impegno che ha l’obiettivo di combattere la speculazione sui prezzi con una più equa distribuzione del valore lungo la filiera per tutelare i consumatori ed il reddito degli agricoltori dalle pratiche sleali”.

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