di BENEDETTA BAIOCCHI – Stefano Fassina, deputato di Liberi e Uguali ed ex responsabile economico del Partito Democratico, in un’intervista alla Verità dell’1 ottobre ha dichiarato: “Nella scorsa legislatura la media di spesa in deficit per anno è stata del 2,6 per cento. Non ricordo in quei giorni reazioni allarmate e previsioni catastrofiste”.
Nel suo consueto fact-cheking, l’agenzia Agi mette sotto la lente questa affermazione nel pieno della turbolenza dei mercati. Una manovra che alza il debito per finanziare la spesa pubblica, non piace. Eppure nei governi precedenti il debito era al 2,6%. Come mai nessuna messa in mora dell’Italia? Cosa c’era di diverso a rassicurare i mercati e l’Europa sul contenimento della spesa?
Fassina fa riferimento alle polemiche e agli allarmi intorno all’intenzione del governo Conte di voler fissare l’asticella del rapporto tra deficit e Pil al 2,4 per cento per i prossimi tre anni. Verifichiamo quindi qual è stata la situazione negli scorsi cinque anni.
Perché allora, si interroga l’Agi, oggi lo scenario è cambiato?
Poi è arrivata la scure del fiscal compact, l’obbligo di pareggio in Costituzione dal 2012: “gli Stati Ue devono convergere anche verso un rapporto dello 0,5 per cento tra il deficit strutturale – ossia il deficit depurato della componente ciclica e delle spese una tantum – e il Pil. In più, devono rispettare gli obiettivi di medio termine (Omt) stabiliti dalla Commissione europea per ogni Paese e aggiornati ogni tre anni. Discostarsi dal percorso di riduzione del rapporto deficit/Pil previsto – che come abbiamo visto è stato pressoché costante dopo il picco del 2009, anche se non privo di scontri tra governi italiani e Ue – potrebbe quindi costituire una violazione degli accordi tra Italia e Unione europea, e dare un segnale preoccupante ai mercati”.