I mercati ti puniscono quando sei un pagliaccio

spread-largedi BENEDETTA BAIOCCHI – Stefano Fassina, deputato di Liberi e Uguali ed ex responsabile economico del Partito Democratico, in un’intervista alla Verità dell’1 ottobre ha dichiarato: “Nella scorsa legislatura la media di spesa in deficit per anno è stata del 2,6 per cento. Non ricordo in quei giorni reazioni allarmate e previsioni catastrofiste”.

Nel suo consueto fact-cheking, l’agenzia Agi mette sotto la lente questa affermazione nel pieno della turbolenza dei mercati. Una manovra che alza il debito per finanziare la spesa pubblica, non piace. Eppure nei governi precedenti il debito era al 2,6%. Come mai nessuna messa in mora dell’Italia? Cosa c’era di diverso a rassicurare i mercati e l’Europa sul contenimento della spesa?

Fassina fa riferimento alle polemiche e agli allarmi intorno all’intenzione del governo Conte di voler fissare l’asticella del rapporto tra deficit e Pil al 2,4 per cento per i prossimi tre anni. Verifichiamo quindi qual è stata la situazione negli scorsi cinque anni.

Nella nota di aggiornamento del Def 2017 del 23 settembre 2017, era stato previsto per quell’anno un indebitamento netto della pubblica amministrazione del 2,1 per cento del Pil. Un anno dopo, l’Istat certifica che il rapporto deficit/Pil nel 2017 si è invece attestato al 2,4 per cento.
Nel 2013 il rapporto deficit/Pil era al 2,9 per cento, nel 2014 al 3 per cento, al 2,6 per cento nel 2015, al 2,5 per cento nel 2016 e al 2,3 per cento nel 2017.

Perché allora, si interroga l’Agi, oggi lo scenario è cambiato?

Con la crisi, il rapporto deficit-pil era raddoppiato tra il 2008 e il 2009, passando dal 2,6 per cento al 5,2 per cento. Scattava una procedura di infrazione.   “Nel 2010 il rapporto deficit/Pil era infatti sceso al 4,2 per cento, nel 2011 al 3,7 per cento e nel 2012 – quando ancora c’era il governo tecnico – al 2,9 per cento, al di sotto della soglia del 3 per cento fissata dai criteri del Trattato di Maastricht“.

Poi è arrivata la scure del fiscal compact, l’obbligo di pareggio in Costituzione dal 2012:  “gli Stati Ue devono convergere anche verso un rapporto dello 0,5 per cento tra il deficit strutturale – ossia il deficit depurato della componente ciclica e delle spese una tantum – e il Pil. In più, devono rispettare gli obiettivi di medio termine (Omt) stabiliti dalla Commissione europea per ogni Paese e aggiornati ogni tre anni. Discostarsi dal percorso di riduzione del rapporto deficit/Pil previsto – che come abbiamo visto è stato pressoché costante dopo il picco del 2009, anche se non privo di scontri tra governi italiani e Ue – potrebbe quindi costituire una violazione degli accordi tra Italia e Unione europea, e dare un segnale preoccupante ai mercati”.

Si sta quindi passando da un calo costante del rapporto deficit-pil a un suo ritorno al passato, senza sufficienti garanzie di successo della manovra. Di certo a pesare sono le affermazioni spavalde e da palco elettorale come il ritornare a battare moneta, per bocca niente meno del presidente della Commissione Bilancio della Camera. Per non dire dei “me ne frego” del ministro dell’Interno. Una chiarezza lessicale che non converge con la ricerca di fiducia che i mercati cercano per prestare denaro all’Italia acquistando i suoi titoli di Stato. L’abito non fa il monaco, ma qualche volta, quando si tratta di comperare debito, anche sì.
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