di ENZO TRENTIN – Non sempre la locuzione latina: Historia magistra vitae (La Storia [è] maestra di vita), si applica alle vicende umane. Per la nostra speculazione politica odierna facciamo nostre le parole di L. Einaudi (v. Einaudi, 1973, p. 347): «fa d’uopo riportare la parola speculazione al suo significato genuino; che è quello di chi guarda all’avvenire, di chi tenta, a suo rischio, di scrutare (speculare) l’orizzonte lontano ed indovinare i tempi che verranno. Purtroppo, gli ‘speculatori’ veri sono rarissimi.» Prendiamo quindi in esame il mondo dell’indipendentismo in generale, non disegnando un’occhiata a quello veneto, ritenuto oggi il più effervescente e promettente.
L’indipendentismo fa grande sfoggio di rivendicazioni citando trattati e leggi internazionali, nonché le leggi italiane che hanno acquisito quegli accordi, e sostiene: pacta sunt servanda (i patti devono essere osservati), proprio appellandosi al quadro legislativo vigente. È un loro diritto sostengono. Tuttavia un diritto non è efficace di per sé, ma solo attraverso l’obbligo corrispondente; l’adempimento effettivo di un diritto che non viene da chi lo possiede, bensì dagli altri uomini che si riconoscono, nei suoi confronti, obbligati a qualcosa. Un diritto che non è riconosciuto da nessuno non vale molto. E infatti l’attuale potere partitocratico si guarda bene dal riconoscere i predetti diritti. Basta vedere che fine hanno fatto le leggi per indire un referendum per l’indipendenza del Veneto, e constatare l’opposizione di questi giorni da parte del governo nei confronti della più recente legge regionale sulla “minoranza veneta”.
Orbene facciamo una dissertazione sulla storia. C’è un libro di Eri Hotta – una giovane storica giapponese, docente in relazioni internazionali a Oxford, Tel Aviv, New York e Tokyo – intitolato: Japan 1941. Countdown to Infamy (Giappone 1941. Conto alla rovescia verso l’infamia) uscito alla fine del 2013 presso l’editore nuovayorkese Knopf. In esso tra l’altro è scritto: «Nei mesi che precedettero Pearl Harbour, Tokyo si trovò immersa in un gran fetore di feci umane che ammorbava l’aria. Questo fu un diretto effetto dell’embargo di petrolio imposto dagli Stati Uniti e che li aveva privati del novanta per cento del carburante. I primitivi pozzi neri della capitale richiedevano continui svuotamenti fatti con autocarri che poi sversavano nelle campagne. La benzina per uso civile non era più disponibile, cercarono di ovviare con taniche montate su biciclette ma non riuscirono a vincere quel maleodorante tsunami.»
C’è da crederci, perché Franklin D. Roosevelt, secondo alcuni storici, aveva da tempo deciso come agire nei confronti del Giappone. Infatti, pare che Pearl Harbour sia stata concepita come una trappola per giustificare l’intervento USA nella II GM. Effettivamente furono lasciate in porto le vecchie corazzate, poi in gran parte colpite, mentre le tre portaerei (il naviglio più moderno ed efficace) furono mandate in crociera, salvandole dal disastro. Ma non bastasse, prima ancora arrivò a “regalare” una forza aerea “chiavi in mano” e pronta all’uso alla Cina Nazionalista.
Tutto ebbe inizio nel 1937. Claire Lee Chennault aveva servito 20 anni nell’Air Corps USA. Era parzialmente sordo a causa dei molti anni di volo con la cabina di guida a cielo aperto. Si era ritirato dalla squadriglia acrobatica di cui faceva parte, e che poi fu sciolta. Ciò nonostante la carriera di Chennault prosegui come colonnello dell’aviazione della Cina nazionalista del Generalissimo Chiang Kai-shek, nella seconda guerra sino-giapponese iniziata il 7 luglio 1937.
La Cina nazionalista, era priva di risorse economiche e industriali, non poté contrattaccare e si tenne alla larga per il resto della guerra, preservando il territorio ancora sotto il suo controllo. Ad un certo punto Chiang inviò Chennault e madame Chiang Kai-shek negli USA nei primi mesi del 1941, e facendo pressioni sul presidente Franklin D. Roosevelt ottenne un programma clandestino di aiuti. Chennault ritornò in Cina con 100 aerei da caccia Curtiss P-40B che erano originariamente destinati alla Gran Bretagna. Inoltre per mezzo di reclutatori, riuscì a trovare alcuni comandanti della marina militare in pensione, e altri avventurosi che erano nell’Esercito e Marines. I volontari con il senso dell’avventura non sono mai difficili da trovare. In cambio della firma su un contratto per un anno, fu loro promesso che alla scadenza potevano tornare nei loro vecchi ranghi delle forze armate USA.
Complessivamente, 87 piloti e circa 300 tecnici di supporto a terra si unirono a Chennault nel campo di addestramento Kyedaw, nei pressi di Toungoo, circa 170 miglia a nord di Rangoon in Birmania, per prendere familiarità con i caccia P-40B ed impratichirsi nelle tecniche di combattimento tattico ideate da Chennault. Si allenarono a ritmo sostenuto, ma a causa di incidenti derivanti da errori del pilota, e altre perdite a causate dalla “legge di Murphy”, il numero di aeromobili operativi pronto al combattimento entro dicembre 1941 fu di circa 55 aeroplani.
Gli uomini dell’American Volunteer Groups (AVG), così si chiamavano ufficialmente, nel giro di meno di un anno passeranno alla storia come The Flying Tigers (le Tigri Volanti). In quasi sette mesi di combattimenti implacabili (18 dicembre 1941 – 4 luglio 1942), le Tigri Volanti avevano abbattuto 296 aerei nemici confermati, e 300 probabili. Il Giappone perse 1.500 tra piloti, bombardieri, navigatori e mitraglieri in combattimento aereo. The Flying Tigers avevano anche distrutto 573 ponti, 1.300 battelli e veicoli stradali, e ucciso migliaia di soldati dell’esercito imperiale giapponese. Le perdite totali al AVG erano 69 aerei e 25 piloti. Alcuni meccanici furono uccisi durante i bombardamenti giapponesi a vari aeroporti. Il giorno in cui il gruppo fu sciolto, c’erano ancora 30 P-40 in grado di volare.
Il primo ministro britannico Winston Churchill, un uomo poco incline alle lodi, fece un cablogramma al governatore della Birmania nel 1942: «Le vittorie di questi americani nelle risaie della Birmania sono paragonabili nel carattere, e nella portata, con quelle della RAF sui campi di luppolo del Kent durante la Battaglia d’Inghilterra.»
Alla fine del ciclo operativo sopra accennato la maggior parte dei piloti dell’AVG tornò in America dove furono reintegrati nelle loro vecchie unità militari. Altri rimasero in Estremo Oriente a pilotare i Curtiss C-46 Commando e i Douglas C-47 Cargo che operavano dall’India alla Cina sopra “la gobba” dell’Himalaya per rifornire i combattenti in Cina.
I “mercenari” di Claire Chennault hanno lasciato una memoria nel proprio paese, e in tutto il mondo, anche se non è sempre facile distinguere la realtà dall’esaltazione. Tuttavia una delle “Tigri” divenne Giudice della Corte suprema della California, un altro divenne rappresentante al Congresso, e due si guadagnarono – nel corso della II G.M. – la Medal of Honor. Il più alto riconoscimento conferito dal Congresso dagli Stati Uniti. Questo per sottolineare che non si trattava di volgari tagliagole.
Quanto al Maggior generale Chennault ritirato dalla USAAF poche settimane prima che i giapponesi si arrendessero nel 1945, dopo la guerra ha contribuito ad organizzare una compagnia aerea civile per la Cina nazionalista, nota come CATC, che ha distribuito generi di soccorso in tutto il paese. Ma nei primi mesi del 1954 – per conto della Central Intelligence Agency USA – volava anche sull’Indocina francese, lanciando rifornimenti sull’assediato campo trincerato di Ðiện Biên Phủ.
Furono gli strumenti della politica estera di un certo periodo storico, oggi superati dai contractors o compagnie militari private (CMP) che forniscono consulenze o servizi specialistici di natura militare. Ce ne sono moltissime, e ne citiamo solo alcune per una corretta informazione:
- USA – La Raytheon Company – http://www.raytheon.com/
- GB – Aegis Defence Services – http://www.aegisworld.com/
- Israele – Beni Tal – http://www.israeldefense.co.il/he/company/bts-beni-tal-security
- Sudafrica – Combat Force – http://www.combatforce.co.za/
- Russia – Ci sono contractors russi contro Isis – http://www.occhidellaguerra.it/siria-contractors-russi-contro-isis/
- Italia – Pare ci sia un “esercito” di mercenari italiani, ma non sono considerati professionali come USA e GB, e forse proprio per questo più “pericolosi” degli altri – http://espresso.repubblica.it/inchieste/2015/03/03/news/contractors-l-esercito-dei-mercenari-italiani-tra-amor-patria-guadagno-e-celtiche-1.202101
Insomma, non mancherebbe “un braccio armato” ai politicanti che volessero estinguere sul nascere qualsiasi velleità indipendentista, alla faccia dei “diritti” dei popoli.
Non bastasse, la guerra oggi si fa anche con altre e più subdole armi. L’Italia è in guerra monetaria da anni e non lo sappiamo, e neanche ce ne stiamo rendendo conto. Questo perché le armi che si stanno utilizzando sono monetarie e finanziarie, che sono le più difficili da individuare, in quanto se ne vedono gli effetti, ma le cause sono incomprensibili ai più. Si legga la lettera di Guido Crosetto e di Marco Zanni a “Libero Mercato”.
Per quegli indipendentisti che accampano diritti, cosa si può dire dell’Europa che sta crollando sotto il peso dei rifugiati provenienti dai paesi dell’Africa da essa stessa devastati, non senza l’aiuto statunitense? E gli europei che stanno pagando la Turchia (in cui vi sono oltre due milioni di profughi siriani) per tenere lontane dai confini europei le persone in fuga dagli orrori della Siria frutto delle politiche di Obama? E Trump che sta facendo pressioni sul Messico perché tenga lontana dalle frontiere statunitensi la povera gente che tenta di salvarsi dai contraccolpi della Guerra globale al terrore? La stessa cosa vale per la situazione dell’Italia con l’arrivo dei profughi dalla Libia. Come sono salvaguardati i diritti di questa povera gente, e i diritti degli autoctoni? Oppure è giunto il momento per gli indipendentisti di smetterla di parlare di diritti per sostituire queste argomentazioni con progetti per un autogoverno del futuro?
Fatta questa lunga speculazione politica; la soluzione per l’indipendentismo in generale, e per quello veneto in particolare, difficilmente può passare attraverso l’organizzazione di partiti politici, o l’elezione di soggetti che perseguono l’indipendentismo nelle istituzioni italiane. È, al contrario, indispensabile elaborare un progetto di nuovo assetto istituzionale per l’area e/o il popolo a cui si fa riferimento. Giusto quello che ha fatto Luca Zaia (le cui azioni politiche abbiamo spesso criticato), che per “vendere” al meglio l’idea di autonomia si è recato presso la sede della CGIA a ritirare il dossier elaborato da quell’Ufficio studi. Un documento che lo stesso Presidente aveva chiesto agli artigiani mestrini nei mesi scorsi. Un rapporto, composto da ben 22 capitoli, dove sono state affrontate le tematiche di natura economica, sanitaria, occupazionale, ambientale, fiscale, sociale e di finanza pubblica in “salsa” autonomista.
Con progetto di assetto istituzionale indipendentista è necessario battere il territorio per informare e convogliare su di esso il favore dell’elettorato senza il quale nulla è possibile. Come scriveva Gianfranco Miglio: «Con il consenso della gente si può fare di tutto: cambiare il governo, sostituire la bandiera, unirsi a un altro paese, formarne uno nuovo.» Lo Stato italiano è mal costruito dalle fondamenta ed è irriformabile. Gli indipendentisti veneti, poi, dovrebbero raccogliere uomini e talenti per informare la platea internazionale al fine di accattivarsene la simpatia e il consenso. Giusto quello che da tempo hanno intelligentemente fatto i catalani, e nessuno sembra accorgersene.
Infine manca del tutto un think tank, ovvero un organismo, un istituto o un gruppo, tendenzialmente indipendente dalle forze politiche, che si occupi di analisi delle politiche pubbliche e quindi nei settori che vanno dalla politica sociale alla strategia politica, dall’economia alla scienza e tecnologia, dalle politiche industriali e commerciali alle consulenze militari. E noi facciamo voti affinché questo organismo trovi al più presto la luce, perché nei prossimi anni, secondo uno Studio Aica-Sda Bocconi: per l’87% dei manager l’impatto più forte sul lavoro si avrà a livello operaio-impiegatizio. Per il 92% a rischiare grosso saranno le attività intellettuali. Si veda qui: http://www.corrierecomunicazioni.it/digital/45838_piu-digitale-e-meno-lavoro-ecco-l-italia-tra-dieci-anni.htm «Più robot e meno uomini, ecco l’Italia tra dieci anni.»