E’ stato ed è uno dei personaggi più autorevoli della finanza cattolica. Ha molto da dire. Personaggio per alcuni scomodo (basti solo ricordare il suo “licenziamento” dallo Ior per le sue azioni di riforma e l’archiviazione poi della magistratura), di certo ha molto ancora da dire ed è per questo che riproponiamo una nostra intervista al prof. Ettore Gotti Tedeschi*: economia di Stato, dualismo nord-sud, Europa della finanza…. Leggere per credere….
di Stefania Piazzo – Da Salamanca, la città dorata dagli edifici d’arsenio, irrompono gli emendamenti alla Finanziaria dei domenicani padre Vitoria e padre Soto, dei francescani padre Medina e padre Villalobos, dei gesuiti padre Molona e padre Suarez. Non è forza di lobby, è la forza della cultura.
Da Plaza Mayor a Piazza Montecitorio infatti passano 2000 chilometri e 600 anni di storia ma, si sa, il pensiero va più veloce di internet e surclassa la globalizzazione.
Anzi, la storia insegna che il pensiero può comodamente anticipare, precorrere, ammonire i tempi. E ricordare, fin dal XVI secolo, come fece in Spagna la Scuola dei gesuiti di Salamanca, che l’esercizio della libertà si sposa con quello della responsabilità in ogni legge economica. Anche dove si fanno e si disfano le tasse. In altre parole, che la libertà è unità di misura dei giudizi etici ed economici, e che quindi ciò che ostacola la proprietà privata, l’intrapresa, ciò che nega la libertà individuale, è un sopruso verso la natura umana. E va emendato, corretto: laicamente parlando, perché è un vero e proprio peccato verso il progresso; su altri piani, quelli “più alti”, perché è un’offesa a ciò che la natura umana rappresenta.
Il professor Ettore Gotti Tedeschi, di Salamanca aspirerebbe ad essere un po’ l’erede nell’azione e custode nel pensiero. Lui, docente alla Cattolica di Milano e alla Statale di Torino, presidente per l’Italia del Banco Santander Central Hispano (la prima banca di Spagna e una delle maggiori d’Europa), consigliere d’amministrazione del SanPaoloImi e della Cassa Depositi Prestiti, dovrebbe tornarci a breve per un convegno sulla Scuola che, chiaro e tondo, ha spiegato quanto l’etica possa influenzare, in bene, l’economia. Quell’economia di mercato che non trova le sue radici nell’abito illuminista ma nel saio, e che ha ispirato altre “Scuole”, da quella scozzese di Adam Smith a quella austriaca di von Mises e von Hayek fino ad altri pensatori dei conti, uno su tutti l’americano Michael Novak: il filone del capitalismo democratico dal volto umano, del liberismo che difende gli individui dall’egemonia statalista.
Professor Gotti Tedeschi, lei scrive, nel suo libro Denaro e Paradiso, i Cattolici e l’economia globale, che là dove c’è lo Stato assistenziale il cittadino è deresponsabilizzato. E dove lo Stato è imprenditore, datore di lavoro e protettore della vecchiaia, sopprime le libere scelte del cittadino. È per questo che l’economia va male? C’è troppo Stato?
«L’economia italiana sta vivendo un momento di particolare difficoltà ma non solo perché afflitta da tanto Stato. Certo, fino a ieri ne ha avuto moltissimo.
Fino al termine degli anni ’80 l’economia italiana era in mano allo Stato per una percentuale elevatissima del Pil. Basti pensare agli enti (Eni, Efi, Iri…) alle banche, che erano pubbliche. Di private se ne contavano ben poche».
E ora?
«Se per molto tempo siamo stati così dominati dallo Stato lei non può pensare che in pochi anni, solo perché dobbiamo rientrare nei famosi parametri di Maastricht e decidiamo di vendere, da un momento all’altro si realizzi il magico passaggio da pubblico a privato».
Parliamo allora di privatizzazioni. Sono vere o verosimili?
«Viviamo la complessità di un processo di privatizzazione difficile da realizzare. E questo perché dobbiamo smontare troppo Stato in tempi troppi brevi, con aziende che erano troppo protette (con le conseguenze che Lei può immaginare) nonché scarsa disponibilità di imprenditori domestici in grado di acquisire».
Perciò che vuol dire?
«Significa che le privatizzazioni le hanno finanziate in gran parte le banche».
Colpa del “troppo” statalismo?
«L’Italia è stata l’economia di Stato più grande d’Europa. Questo è il primo punto. Vengo al secondo: l’economia di Stato, proprio perché economia fuori dal mercato, ha bisogno di protezionismo. E protezionismo, lei sa bene, produce inefficienza. E quando il Protezionismo finisce, nel 2000, per molti settori è stato l’inizio della fine».
Ma qualcuno ha allungato la rete di salvataggio…
«Appunto: il sistema bancario è depositario di due momenti fondamentali del passaggio epocale che stiamo vivendo: da un lato le privatizzazioni, dall’altro, come si diceva, i salvataggi industriali del post-protezionismo».
Quando si completerà il ciclo?
«Se le banche si specializzano in salvataggi, non hanno più risorse per le pmi. Ma c’è un terzo processo, altrettanto importante, da registrare » .
Scommetto riguardi le imprese…
«Scommette bene: se io sono un’azienda che compete sul mercato e sono indebitata, la prima mia preoccupazione è chiudere il debito. Ma se sono concentrato sulla riduzione del debito, non faccio investimenti quindi non investo per lo sviluppo, per la crescita. E non solo non investo: devo ridurre i costi quale priorità».
Vuol dire che si focalizza tutto in “riduzione costi-chiusura debito”?
«Voglio dire: niente investimenti, niente crescita dell’occupazione. Un circolo vizioso perché se non cresce l’occupazione si ferma la domanda. Se si ferma
la domanda si ferma l’offerta. Regole elementari, mi pare».
Siamo circuitati da parecchio tempo, però…
«Sì, ma questo è un “inviluppo” tipicamente italiano, al quale si aggiunge una politica fiscale che aveva promesso di ridurre le tasse».
Professore, la convince questa Finanziaria?
«Non mi entusiasma questa sorta di “patrimoniale di solidarietà” che va a toccare i cosiddetti redditi medio-alti, espressi dalle classi emergenti, dai “produttivi”, quelli che “tirano” il sistema».
In ogni caso si parla di riduzione delle tasse. Lei lo ritiene possibile?
«Credo proprio di no. Le tasse scendono ad una sola condizione: ridurre prima le spese. Altrimenti non posso far altro che ridurre le tasse a qualcuno per aumentarle a qualcun altro, come stanno pensando, mi pare. Se ho deciso di ridurre le tasse, devo ridurre le spese più riducibili».
E quali sono le più “riducibili”, professore?
«Sono purtroppo le spese di investimento, perché tutto il resto (diciamo il 90%) sono spese correnti, che vuol dire stipendi. Se gli stipendi non si toccano,
le uniche spese tagliabili, gli investimenti, appunto».
La questione settentrionale, le rivendicazioni per una diversa politica dei redditi, la devoluzione che avanza… Venirne a capo migliorerà prima o poi i conti?
«Mettiamola così: immagini di avere due aziende: una guadagna, l’altra perde. Una guadagna perché è più vicina all’Europa, è tecnologicamente più
avanzata, è più abituata a competere o, se preferisce, ha la testa di chi compete. L’altra azienda sorge in un’area lontana dal modello competizione ed è stata sempre cullata da politiche di dualismo economico. Questo appunto è il quadro dell’economia dualista nella quale operano le nostre due aziende».
L’azienda Nord e l’azienda Sud?
«Esatto. La prima ipotetica azienda che chiamiamo Nord guadagna perché è tecnologicamente avanzata, fa dei buoni prodotti. La seconda non può guadagnare perché ha svantaggi competitivi, qualsiasi cosa faccia ha costi più elevati e livelli più bassi di rendimento».
Detto questo, chi comanda che deve fare?
«Ipotizziamo che io sia il padrone di entrambe le aziende. Fino a ieri il governo che aveva in mano 1.000 lire da investire faceva metà e metà. Qual è il
dramma? Che le 500 lire all’impresa Nord erano insufficienti, non servivano per renderla più competitiva. Le altre 500 a quella al Sud servivano solo per
coprire i costi».
Allora lei oggi come spenderebbe quei soldi?
«La domanda è proprio questa: se ho 1.000 lire dove le metto? Diciamo che decidiamo di mettere tutte le 1.000 lire nel Nord cioè rafforzando l’impresa più competitiva. Investite bene, quelle lire rafforzeranno ancor più la sua competitività e con quella farò gli investimenti più opportuni e completi nell’impresa Sud che trasformo in area “emerging” (emergente) supportata strategicamente dall’impresa Nord. È un’ipotesi, ma è la vera domanda
aperta».
L’importante è spezzare il dualismo?
«La chiave di volta è cosa voglio fare di un’Italia il cui dualismo è stato enfatizzato dalla politica dal Regno d’Italia. Come mai, negli ultimi 150 anni, non si sono sviluppate adeguate università tecnologiche nel Sud?».
Il federalismo fiscale può aiutare?
«All’interno di questa chiave di volta, sì. Il Sud ha bisogno di ritrovare un suo ruolo economico ma per riuscirci deve farsi supportare dal Nord. So bene che qualcuno potrà arricciare il naso e fare accuse di neocolonialismo, ma allora mi dicano se la politica per il Sud vincente è magari quella di nuove casse del Mezzogiorno o quella di imprenditori che s’inventano il business per andare a guadagnare attraverso vantaggi finanziari e non imprenditoriali».
Questa Europa e il mercato globale in termini di concorrenza, intanto ci travolgono…
«Lei avrà seguito in televisione la firma a Roma per la Costituzione? Bene. Mi consenta di farle questa domanda. Quanti dei presenti aveva l’interprete dietro le spalle? Non le basta?».
E mi avanza.
«Gli Stati Uniti sono nati tra persone che parlavano la stessa lingua e l’unione è servita a preservare i vantaggi competitivi locali di ogni singolo Stato, integrando culture che stavano evolvendo. Allora… la grande differenza che a me piace ricordare è che gli Stati Uniti nascono a Philadelphia. Quelli d’Europa nascono a seguito della rivoluzione francese. I primi nascono sulla crescita e sul riconoscimento di “valori” anche religiosi che gli Stati Uniti avevano in comune. L’Europa, non dimentichiamolo, nasce sul disconoscimento di questi valori. Questa è la prima riflessione. La seconda: l’Europa
negli ultimi 60 anni dopo la guerra non ha avuto uno sviluppo omogeneo, ogni nazione ha attuato una propria forma di sviluppo e di protezionismo, ogni nazione aveva differenti vantaggi competitivi. Insomma, siamo economicamente diversi».
Forse è con questa Europa, che ha perso l’identità di se stessa, che si rischiano davvero conflitti con altre civiltà e culture, non le pare?
«L’Europa ha certo grandi potenzialità in quanto unione di Stati ma per realizzarle bisogna consolidare molti settori d’imprese creando dimensioni economiche e nuovi vantaggi competitivi a livello europeo. Per esempio fondere la Fiat con la Volkswagen piuttosto che con altre case automobilistiche europee, per essere competitivi rispetto alla Ford. Bene, facciamo imprese di dimensione europea ma dove mettiamo gli stabilimenti nati dalla fusione? La ricerca dove va? La fabbricazione dove va se non dove gli operai lavorano con maggior disciplina e maggior di produttività?».
Eppure l’euro è nato con l’intenzione di farci “tutti uguali”.
«Lo spirito dell’euro è l’irreversibilità del progetto Europa. Avrebbe dovuto essere un evento conseguente all’Unione, invece è stato “anticipante”. Fatto l’euro, non si può più tornare indietro, si deve arrivare a un governo europeo».
Direbbe Novak: «Il potere è pazzo e deve essere controllato con la prudenza economica. Senza prudenza gli Stati declinano. L’impero romano cadde a causa delle eccessive spese che ne consumarono i tesori». Sarebbe auspicabile che Bruxelles riconoscesse dottrine economiche che vengono dal cuore cristiano dell’Europa, dagli eredi della cultura monastica, delle grandi abbazie, preferendole a tanti altri valori. Se no nasceranno
altre scuole di Salamanca…
*Intervista apparsa sul settimanale Il Federalismo, direttore responsabile Stefania Piazzo – Ettore Gotti Tedeschi – Dal 1996 al 2006 è stato docente di Strategia finanziaria all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, poi di Etica economica all’Università degli Studi di Torino. Oggi insegna Etica della finanza all’Università Cattolica di Milano, ed è editorialista de L’Osservatore Romano e del Sole 24 Ore.
Nel 2008 venne chiamato ad occuparsi della gestione finanziaria del Governatorato della Città del Vaticano i cui bilanci erano in rosso per più di 15 milioni di euro. Ha inoltre contribuito alla stesura dell’enciclica “Caritas in veritate” di Papa Benedetto XVI. Il 23 settembre fu nominato presidente dell’ Istituto per le Opere di Religione, avviando importanti riforme per la Trasparenza bancaria. Tuttavia, nel settembre 2010 rimase coinvolto – insieme agli altri vertici dello IOR – in un’indagine della Procura di Roma per supposta violazione delle norme antiriciclaggio. Il Consiglio di Sovrintendenza dello IOR reagì il 24 maggio 2012 sfiduciando all’unanimità Gotti Tedeschi e rimuovendolo dalla carica di presidente con la seguente motivazione: “per non avere svolto varie funzioni di primaria importanza per il suo ufficio”.
Il 19 febbraio 2014 il GIP del Tribunale di Roma, accogliendo la richiesta della Procura di Roma, ha archiviato l’inchiesta. Il decreto di archiviazione esclude ogni responsabilità di Gotti Tedeschi. L’8 gennaio 2015 ha reso noto per la prima volta su “The Catholic Herald” di essere stato estromesso dallo IOR a causa della sua decisione di presentare al Consiglio una proposta che avrebbe completamente cambiato il governo dell’Istituto, dettata dalla sua preoccupazione rispetto al “passo indietro” compiuto dallo IOR in termini di trasparenza con una repentina modifica alla normativa antiriciclaggio nel dicembre 2011.