di ANDREA ROGNONI – Trentasei anni fa moriva in Svizzera lo scrittore d’origine scozzese Archibald Cronin. Un autore da riprendere in ma-no se si vogliono capire le ragioni dell’identità della Britannia più autentica rispetto alla Londra schiacciasassi.
E le ragioni di ogni libera comunità del mondo.
Nel capolavoro croniniano, La Cittadella, la stessa trama parla chiaro: un giovane medico scozzese si trova a combattere contro veti, ostacoli, ipocrisie e carrierismi “dopati”, finendo vittima di una complessa rete che fa capo al centralismo londinese. La bella storia d’amore con la moglie Cristina finisce male, dopo un tradimento coniugale che simboleggia la provvisoria resa al sistema, colla morte dell’amata; la sofferta vedovanza porta Andrew Manson a ripudiare definitiva-mente la cancrena londinese, rinunciando a laute e artificiose prebende e “cadreghe”, per rifugiarsi infine nella campagna del Nord, intento finalmente a costruire quella cittadella alternativa che si fonda su una medicina finalmente
rispettosa delle effettive esigenze del territorio (ne era stata anticipatrice l’e-sperienza nelle miniere del Galles).
Il motto dell’opera è riassunto nelle significative parole di una Cristina presaga della sua brutta fine ma soprattutto buona consigliera del marito in fatto di dignità professionale: «Preferisco essere una sacrosanta nevrastenica e spiritualmente viva, piuttosto che un sacrosanto arrivista spiritualmente morto». Si tratta di un romanzo degli anni Trenta, scritto nella stessa epoca in cui altrove dominavano Fascismo, Nazismo e Comunismo: nel Regno Unito, sembra far intendere l’autore, vigeva un meccanismo di potere solo apparentemente democratico, in cui poteva arrivare ai vertici della professione e della vita poli-tica solo chi accettava la corruzione co-me stile di vita.
Nelle pagine croniniane il sistema ospedaliero della capitale britannica appare davvero come un immane Soviet (di statalista c’è anche la cronica pigrizia degli impiegati…) in cui non c’è più spazio per le libere iniziative di
ricerca, atte ad esempio a combattere alcune gravi malattie del sistema re-spiratorio, come tentava di fare il “povero” Manson. Non è un caso che allora l’opera croniniana sia stata accolta freddamente
dalla critica letteraria europea e inglese, intenta invece a celebrare autori più arcigni e “prepotenti”, capaci di catturare gli istinti più bassi. In realtà, dietro lo stile piuttosto dimesso del nostro c’era una volontà di denuncia forse ancor più forte e polemica di quanto appare dal tono narrativo: Cronin era stato lui stesso medico e aveva vissuto sulla propria pelle le malefatte di un ambiente prono alle frenesie neoimperialistiche della capitale.
I libri di Cronin sono tutti estremamente intriganti, compreso quel E le stelle stanno a guardare che tanta fortuna ha avuto nelle sue trasposizioni cinematografiche e televisive, anche per la capacità di render il clima decadente di un mondo
minerario ormai al suo tragico tramonto.
Ma la nostra attenzione deve andare soprattutto alle opere del dopoguerra, che hanno visto impegnato Cronin nella descrizione di una società, quella degli anni Cinquanta che vedeva il boom di un nuovo tipo di comunicazione e di
informazione. In particolare è obbligata sotto questo punto di vista, la rilettura del romanzo La luce del Nord, che compie, almeno nella stesura, il cinquantennio di vita, proprio nel 2006. Qui al posto del medico idealista troviamo un direttore di giornale che resiste eroicamente alla pressione di un cartello editoriale di marca protoglobalista. Nello sperduto Yorkshire la testata Luce del Nord continua a riscuotere il consenso della popolazione locale informando i cittadini su tutte le realtà identitarie e comunitarie poco disposte a cedere il passo al commercio e allo spettacolo di massa. Ma il network londinese, coi primi magazine scandalistici arriva come una piovra nella tranquilla cittadina di provincia nel tentativo di rilevare la Luce, vista come anticaglia giornalistica tesa a difendere i valori di un mondo che deve crollare a tutti i costi. Il cinquantenne direttore resiste con caparbietà, nonostante le noie di una crisi coniugale (ritorna la lacerazione della vita privata che avevamo visto nella Cittadella) destinata a travolgere l’amante al posto della moglie. E alla fine la vince, facendo capire ai “padani” di Britannia che il nuovo mondo centralista e mondialista può esser sconfitto, anche quando si mostra nei suoi aspetti più protervi e immorali, solo a patto che la gente del Nord abbia ancora il coraggio di seguire quella Luce, fatta di tradizione etnoculturale e rispetto dei propri corregionali.
Il libro, frutto di un Cronin maturo capace di entrare direttamente nelle piaghe dell’animo, si legge tutto d’un fiato, anche in lingua italiana grazie alla bella traduzione offerta dalle edizioni Bompiani, uscita negli anni Settanta. Rispetto alle opere giovanili lo stile si è fatto tagliente, il ritmo del giallo permette di comprendere ancora meglio le idee chiare e forti. Facile allora il gioco al massacro della critica marxista e strutturalista, tipica degli anni Settanta e Ottanta, pronta a bollare simili sforzi come «resa dei conti all’interno del mondo borghese che assume il meschino aspetto del romanzo d’appendice».
Spetta a noi invece, interessati alla letteratura in chiave libertaria e identitaria, a rilanciare il profondo messaggio di colui, che ancora oggi, i massmedia italiani (vedasi la riduzione televisiva della Cittadella con protagonista un ottimo Massimo Ghini) fanno passare banalmente come “cantore tascabile delle classi oppresse”.