di ROMANO BRACALINI – Porta Romana venne fatta costruire dal governatore spagnolo don Ferdinando Velasco nel 1598 per celebrare le nozze tra Margherita d’Austria con Filippo II di Spagna, duca di Milano. Eravamo in piena controriforma. Cosa resta del lungo dominio spagnolo a Milano? Per fortuna ben poca cosa. Dove sorgevano le mura che collegavano le porte venivano sepolti i giustiziati. La città era meta di poveri, di mendicanti, di ladri; nelle città e nelle campagne s’era diffusa una violenza endemica, che bandi e retate, leggi e grida, non riuscivano a estirpare.
All’ondata di criminalità, rapine, ferimenti e omicidi, si rispose con la legge perversa e vendicativa: incutere terrore per prevenire i crimini. Si instaurò la tortura che “puniva nell’innocente i delitti dell’ignoto”; le fruste, le tenaglie infuocate, il marchio, la gogna, i tratti di corda, la galera e il bando, le mutilazioni fino alla morte, altrove aboliti, entrarono nel diritto penale.
La giustizia non era uguale per tutti. Al reo benestante, invece di essere bastonato come un poveraccio qualsiasi, era consentito di pagare una multa. Secondo la procedura la prova prodotta dal magistrato aveva bisogno di una conferma dell’imputato. Era nel suo interesse darne pronta conferma se non voleva che gli venisse estorta con la tortura. Esemplari furono i processi alle streghe bruciate sul rogo e agli untori costretti sotto tortura a confessare colpe non commesse e a denunciare i complici. Nell’anno di grazia 1622 l’inquisizione condannò un sacerdote, Giuseppe Ripamonti, accusato di aver negato l’immortalità dell’anima, l’esistenza dei diavoli e perfino quella di Dio.
E tuttavia, sebbene decaduta, e a parte l’effettiva povertà del popolo, i grandi viaggiatori che venivano a Milano ne riportavano impressioni piene di meraviglia. L’inglese Richard Lessels nel 1670 scriveva: “E’ una grande città, ha dieci miglia di circuito ed è cinta da mura, dieci porte, duecento chiese e trecentomila abitanti”. La cifra contrasta con le fonti d’archivio che dopo la grande peste del 1630 parlano di impressionante spopolamento. Lessels era rimasto impressionato dal gran numero di nobili e dal grandissimo numero di carrozze che non aveva visto nemmeno a Parigi. C’erano operai e artigiani abilissimi, orafi, tessitori, spadari. “Città magnifica e popolosa,la chiama il celebre erudito Mabillon venuto nel 1685 e l’inglese Gilbert Burnet, medesimo anno,così si esprimeva: “Ciascuno sa che è una delle più belle e più ricche città del mondo: quantunque sia situata lontana dal mare e non abbia alcun fiume navigabile; e non solo è grande e bella ma è ricchissima come provano la sua vasta distesa,la bellezza dei suoi edifici e specialmente la sontuosità delle chiese e dei conventi”.
Lo stesso Burnet,un anglicano,osservava che “sia per la durezza del malgoverno spagnolo sia per l’artificio dei preti, che per arricchire le loro chiese e conventi, toglievano quel poco che restava della devastazione del principe, il popolo minuto era ridotto alla miseria più nera. Il pauperismo era davvero grande a Milano, e ad alimentarlo e incoraggiarlo erano le congregazioni religiose che con le beneficenze e le elemosine abituavano i poveri all’ozio. Tutto ciò contrastava con il lusso degli abiti e degli equipaggi ostentato dai gentiluomini, dallo sfarzo delle toelette femminili e dalle vetture ricoperte di tela d’argento e oro. Finalmente nel 1711, dopo quasi due secoli, Milano si stacca dal cadavere spagnolo, per ricongiungersi, dice Carlo Cattaneo, alla Mitteleuropa alla quale apparteneva. I bastioni solitari e paurosi divennero ombrosi passeggi: si tolse il lezzo alle strade: dalle chiese si rimosse l’orrida abitazione dei cadaveri; si sgombrarono dai gradini delle chiese i mendicanti: non si videro più nella città piedi nudi e abiti cenciosi.