Dai terroristi partigiani ai ladri col vitalizio

ladri

 

Il gestore della trattoria nel lodigiano è accusato di omicidio volontario per aver sparato al ladro. Uccidendolo. Altri recenti casi di cronaca ci ricordano che un giudice ha condannato in Veneto l’uomo che sparò per difendersi, a pagare un vitalizio alla famiglia del ladro, scatenando la scomunica mediatica del vescovo di Chioggia, così come la vicenda del cittadino di Grosseto finito in carcere per aver sparato a chi gli stava rubando l’auto. Tutti  impongono una più ampia riflessione sul diritto italiano. Chi è la vittima e chi l’aggressore? Chi è Caino e chi è Abele? Difendersi è un diritto? E che dire dell’eredità del signor Mattielli, che sparò a due nomadi per difendere la proprietà privata e che, una volta morto, ha visto i propri beni convolare sui campi rom? In nome di quale popolo si esercita la giustizia?  Cosa si esercita in nome del popolo italiano?eredità ladriEbbene, dei precedenti ci sono, illustri. Li ripercorriamo con un brano magistrale, quando dei terroristi  furono promossi a partigiani…

di ROMANO BRACALINI – La giustizia è spesso zoppa, ma gli avvocati quale verità servono? A Napoli, città di filosofi e di avvocati, li chiamano con irrispettoso epiteto “mozzaorecchi”. Gli avvocati del Foro napoletano, sempre in soprannumero, affollavano i tribunali in cerca del cliente da spennare e a cui offrire i loro loschi servigi. Il cinema e la televisione americana hanno illustrato i caratteri di avidità e di cinismo degli studi legali in spietata concorrenza fra loro. L’idraulico esulta davanti a un rubinetto che gocciola, l’avvocato fiuta l’affare nel delitto. Non c’è nulla di male; anche il dentista vive sulle protesi e le carie. Quando Garibaldi prese possesso di Napoli nel settembre 1860 una coda immensa di questuanti faceva anticamera impetrando favori e posti, secondo un’inveterata abitudine, e i più furbi si portavano l’avvocato che davanti al “dittatore” improvvisava un’arringa appassionata e teatrale a difesa della causa del cliente.

Cliente è parola di tutto rispetto, se si adopera al mercato rionale o in drogheria, ma sentirla ripetere da un avvocato fa una brutta impressione. La professione dell’avvocato sarà certo cambiata nel frattempo, ma certi caratteri di interesse specifico, che nulla hanno a che fare col trionfo della giustizia e della verità, sono rimasti appiccicati alla professione forense come un marchio di sangue, come un
Dna poco nobile.

La dottoressa Forleo che ha mandato assolto il gruppo islamico associato ad Al Qaeda (non alla Croce Rossa o alla bocciofila di Corsico), è stata smentita clamorosamente dal Gip di Brescia che, confermando un sospetto generalizzato, ha ribaltato la sentenza assolutoria
affermando, al contrario, che gli imputati non sono “resistenti”, ma “terroristi”, creando un precedente, che nella legislazione anglosassone fa giurisprudenza, e aprendo un conflitto di competenza tra le procure. Non si sa come abbia reagito la Clementina Forleo che dopo tutto il polverone che ha sollevato ha scelto più prudentemente di non commentare. Da parte nostra avremmo commentato l’intervento del giudice Spanò di Brescia come un’opportuna e pronta correzione di un’interpretazione abnorme e temeraria della legge fatta alla luce di un ragionamento “politico” che non attiene alla competenza del giudice, il quale è chiamato a giudicare su dati di fatto e non in base alle proprie analisi politiche.

Se ritorniamo su questo caso è perché in questa vicenda, già intrisa di speculazioni ideologiche e di riferimenti erronei, che avrebbero tolto prestigio allo stato di diritto, s’è proditoriamente e curiosamente inserita la “protesta” degli avvocati difensori che dopo aver cantato vittoria hanno definito l’intervento del Gip di Brescia come frutto delle polemiche seguite alla sentenza della Forleo. Hanno detto, smentendo ogni prassi e un’invalsa consuetudine, che le “sentenze non si discutono” (salvo quando danno ragione a loro) ed hanno preannunciato un appello al presidente Ciampi. Per chiedere che cosa? Per fare che cosa? «Per moderare i toni delle polemiche, in modo da garantire un processo d’appello sereno», hanno spiegato con una motivazione che ha dell’incredibile. La loro pretesa merita un’adeguata risposta.

Gli avvocati, si sa, difendono vittime e carnefici, come è giusto che ciò avvenga in uno Stato democratico in cui i diritti elementari sono garantiti a tutti. Non è il caso di scambiare gli affari con la morale, o la giusta mercede con un attestato di giustizia. Ma i legali degli islamici assolti non si sono accorti di cadere in contraddizione quando affermano che le sentenze non vanno discusse (come si pretende nei regimi autoritari) mentre loro si sono permessi di farlo nei confronti della pronuncia del giudice bresciano. Ormai lanciato sul più spericolato percorso e senza più freni, uno degli avvocati ha detto: «Mi auguro che la massima autorità dello Stato lanci un monito affinché l’ago della giustizia sia posto nuovamente in equilibrio». L’ago non sta in equilibrio! La prosa non è elegante né convincente; e ciò che s’indovina in questo maldestro appello avvocatesco, inusuale e furbo, lanciato al Quirinale è solo voglia di protagonismo, privo com’è d’ogni connotato di franchezza e nobiltà.

La pubblicità è l’anima del commercio. Purché “l’ago della giustizia“, che nelle ansie degli avvocati c’entra come il cavolo a merenda, non interferisca col predominante interesse della parcella. Ma forse, tutto sommato, che la vicenda si gonfi e si carichi di motivazioni e di contrasti in modo da discuterne ancora a lungo nei diversi gradi di giudizio è perfino augurabile.
Se le cause nei tribunali italiani non finiscono mai è probabile che ciò avvenga anche per specifico desiderio degli azzegarbugli interessati, più del giudice, a prolungarne i tempi all’infinito. Se avete lo sciacquone che non funziona troverete sempre un “mozzaorecchi” disposto a fare causa a qualcuno assicurandovi del vostro buon diritto ad essere risarcito da “quel” qualcuno. Metà delle cause per diffamazione a mezzo stampa a carico di giornalisti vengono archiviate, ma un avvocaticchio delle cause perse disposto ad avviarle si trova sempre, anche quelle che chiaramente non stanno in piedi; e il giudice non può far altro che esaminarle e perdere due o tre anni tra udienze e testimonianze prima di giudicarle palesemente infondate.

Se si è arrivati a dare due visioni nettamente opposte di un fatto di cronaca dando per innocenti coloro che invece sono colpevoli, vuol dire che il nostro sistema giudiziario è arrivato a un grado di perversione intollerabile, anche se ci conforta l’idea che esso abbia al tempo stesso gli anticorpi e gli strumenti per combattere le aberrazioni e gli errori giudiziari, come ha dimostrato il Gip del tribunale di Brescia. Un giudice a Berlino si trova ancora. Ma c’è ancora molto da fare, anche alla luce dell’intervento poco elegante, inopportuno e pretestuoso dei difensori dei “kamikaze”. Difendete pure i “tagliagole”, ma non menatene vanto.

(da “Il Federalismo”, direttore responsabile Stefania Piazzo)

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